Gabriella Ferri (cantante)    Roma 11 maggio  1998

                  Intervista di Gianfranco Gramola

Zazà, la voce de noantri

 

Roma. 3 aprile 2004

E’ sparito un altro pezzo di Roma. Gabriella ci ha lasciati tragicamente, fra l’incredulità e lo sgomento. Per chi, come me, l’ha apprezzata molto è stato un colpo al cuore. Molti non lo sanno, ma da anni combatteva una grande lotta, quella contro la depressione. E’ vero, come diceva un titolo sul Messaggero, adesso il cuore di Roma è più povero. Disgrazia o suicidio non si sa, fatto sta che “Zazà” non è più fra noi. Dopo Aldo Fabrizi, Paolo Panelli,Bice Valori, Fiorenzo Fiorentini, Alberto Sordi, Anna Magnani, Claudio Villa e Sora Lella, anche Gabriella è salita in cielo Unica consolazione, anche se magra, è che almeno si trova in ottima compagnia, in mezzo ad amici. Di lei ci sono rimaste le sue belle canzoni, le sue melodie ,cantate con quella sua bellissima voce da romana verace, inconfondibile e possente. Nata a Roma il 18 settembre del 1942, prima di dedicarsi completamente al canto ha fatto mille mestieri, fra cui la venditrice di biscotti e di lamette da barba, l’indossatrice e la commessa. Inizia la sua carriera giovanissima, interpretando canzoni e stornelli della tradizione romana, al Bagaglino (allora, nel ’65, stava a vicolo delle Campanelle) e poi arriva al successo con la televisione (Rischiatutto - Senza Rete - Teatro 10 - Dove sta’ Zazà , ecc…). Negli ultimi anni Gabriella, che da Campo de’ Fiori, dove abitava s’era trasferita a via G. Parrasio 23, vicino a viale Trastevere, aveva lasciato la sua amata Roma per andare a vivere a Corchiano, nel viterbese, in cerca di tranquillità, per debellare il tunnel della depressione. Gabriella era una grande innamorata della sua città e lo dimostra in questa intervista che mi ha concesso l’11 maggio del 1998.

Ha detto:

- Il criterio con cui scelgo i pezzi musicali, è lo stesso che mi ha sempre guidato: l'istinto.

- Il mio contatto con la gente scatta quando mi do completamente, perché se non  lo facessi sarei la peggior cantante del mondo.

- Quando abitavo a Campo de Fiori, ogni volta che vedevo Pasolini cenare nel ristorante sotto casa, fingevo che mi fosse finito il pane e uscivo.

- Anna Magnani è stata l'unica persona alla quale ho permesso di darmi una pacca sulla spalla, che è una cosa che detesto.

Curiosità

- Al suo debutto arrivò Anna Magnani a sentirla. A fine esibizione Anna si avvicinò, due pacche sulle spalle e un telegrafico giudizio:" Se pò ffà, se pò ffà". Gabriella  Ferri si sentì promossa.

- Sposata con il russo Seva Borzak, ha avuto un figlio, Sieva, arcidiacono della chiesa ortodossa russa. 

Intervista

Gabriella, com’è il tuo rapporto con Roma?

Il mio rapporto con Roma è viscerale, essenziale,inviolabile,
perché è la mia città nativa. Se mi guardo allo specchio non vedo me, vedo Roma, i suoi colori, i tetti, questo incastro di vicoli, di piazze, un bellissimo mosaico. Per me Roma è un bellissimo merletto, fatto a mano, dagli angeli, nelle notti di sonno sereno…

Da come l’hai descritto sembri una poetessa. C’è un angolino a cui sei particolarmente legata?

Sono molto legata a Testaccio , il monte dei Cocci. Io sono nata proprio qui, a Testaccio, che è un quartiere romano per eccellenza, dove ci fu la prima partita di calcio, con la prima vittoria mondiale di calcio, nel ’64, dove c’era il Mattatoio detto anche l’ammazzatora. E’ un quartiere molto particolare con questa chiesa di S. Maria Liberatrice, dove io sono stata battezzata, dove ho fatto la prima comunione e tutti i sacramenti del cattolicesimo. Sono nata in piazza S. Maria Liberatrice 18, interno 31, III piano, nel 1942, di settembre, segno Vergine, discendente Sagittario… Questa chiesa non è antica, forse è dell’inizio secolo, mentre il quartiere è di fine 1800, inizio 1900 ed è un po’ felliniano, povero Fellini, che ogni tanto lo si riporta per favorire le nostre immagini, con tutto il rispetto e l’ammirazione, perché è stato un grande padre per me, un grande amico. Dicevo che Testaccio è un po’ felliniano perché è semivuoto, c’è un silenzio particolare, la gente ama starsene nei cortili o sui ballatoi…

Ballatoi?

Non sai cosa sono i ballatoi? I ballatoi sono quelle costruzioni fine 1800 che assomigliano a dei grandi poggioli, solo che essere all’esterno venivano fatti all’interno… A quei tempi le case erano molto ampie e la stanza più grande era la cucina, perché la famiglia era patriarcale. Io parlo dei miei genitori e dei miei nonni. Si usava stare a mangiare in cucina su un grande tavolo di marmo. Adesso in pochi anni è tutto cambiato in maniera miserabile per certi versi, per certi altri no, come per le scienze, per le malattie, va bene. Ma per certi versi… lassamo perde. L’omo è diventato il nemico numero uno della natura. Tornando al mio quartiere, dicevo che c’era un sapore che solo un testaccino tosto, gajardo e duro riusciva ad assaporare. Il testaccino è uno che parla poco e quando parla lo fa con i gesti, con le occhiate, c’hanno queste guance scavate un po’ come certi napoletani, come il grande Edoardo De Filippo. Mio papà era così, aveva le guance scavate, biondo, sempre abbronzato, occhi color acqua…. sembrava un beduino (risata). Testaccio aveva queste costruzioni povere, ma regali. Con questi portoni dove sotto, quando ero bambina, c’erano ancora le fontane e il fontanile per lavare i panni. Ora purtroppo non ci sono più, hanno tolto i cortili, le fontane, ecc… Ci si deve modernizzare tutto per queste nuove generazioni di giovani fanciulle che hanno bisogno del “termo” de qui e del “termo” de là, che se non si scalda tutto in tre minuti succede la guerra. No, non c’è più il gusto di cucinare sui fornelli un buon sugo fatto in casa. Scusami, caro Gianfranco, mi accendo una sigaretta, un pessimo vizio che devo perdere. (breve pausa) Al monte dei Cocci io ci andavo a giocare da bambina e non capivo perché questo monte era fatto con la mondezza. Pensa che ci sono ancora dei reperti, dei cocci che buttava lì la gente povera e che non capiva il valore di certe cose, di certi oggetti. E allora quello che ingombrava si buttava e butta oggi e butta domani è venuto su questo monte, dove adesso troneggia ‘sta croce, a santificarlo. Ricordo che giocavo di fronte a casa mia, a piazza S. Maria Liberatrice, dove c’era un giardino incolto. Ora ci sono tutte piante fiorite e panchine e da bambina giocavo a campana a corda, a tesoro e a spezza catene. Per questi giochi non servivano le palestre, perché la sera alle sei, quando la mamma ci chiamava per rientrare a casa, io e mia sorella più grande di 5 anni, mangiavamo e crollavamo a letto esauste a forza di giocare. Quindi a Testaccio ho vissuto gli anni più felici, anche, ripeto, perché ci sono nata e cresciuta. Purtroppo sono venuta via presto, a 10-11 anni, per ragioni di famiglia. Ci siamo dovuti spostare, ma a Testaccio ci torno spesso. Nel maggio ’97, con molto piacere, ci sono tornata e c’ho fatto un grande concerto che ho “regalato” al pubblico testaccino e romano, si, perché io Roma la amo tutta. Testaccio… architettonicamente è straziante per quanto è bello.

Quando si parla di Testaccio viene in mente la cucina romana, quella verace, vero?

Vero. La cucina romana, quella della mia povera mamma, che non c’è più, era una cucina abbastanza pesante, perché era il dopoguerra, c’era povertà e quindi si mangiavano le interiora, la testina d’abbacchio e queste cose che io rifiutavo. Io sono cresciuta con delle zuppe, con delle minestre, quelle minestre che poi il grande Aldo Fabrizi ha raccolto in un libro che mi ha dedicato. Mi piaceva molto la pasta e lenticchie, la pasta e fagioli, la pasta e patate, pasta e ceci… Invece la pajata, la coratella, la coda alla vaccinara, secondo me, sono cose da muratori, da dar da mangiare a quei omoni grandi e grossi, dei macho romani, quelli che fanno sfoggio della loro virilità (risata).



Frequenti qualche trattoria in particolare?

Si! Ogni tanto vado a Testaccio, vado in quelle trattorie più povere, più umili, senza tante insegne. Mi piace andare nelle vere trattorie, nelle osterie. Ce n’è una, gestita da un ciccione, che è una bettola, però è sempre piena, addirittura bisogna prenotare. E’ un’osteria che puzza, coi gatti fuori che aspettano. Però come si mangia lì, cari miei… Fanno un cacio e pepe che parla. Le cose che so fare della cucina romana l’ho imparate da mia madre, perché io ho fatto la scuola fino alla IV elementare e per il resto sono un autodidatta, cioè mi sono autoinsegnata quello che ho voluto scoprire della vita, quello che mi incuriosiva. Questo è il privilegio degli autodidatta. Dalla mamma ho imparato anche a fare il sughetto finto… praticamente si mettono degli verdure come il basilico, sedano, carote, prezzemolo e pomodori e si fanno cucinare in fretta in fretta, si butta sulla pasta ed ecco pronto il sughetto finto. Che ce vo’ ? Perché si faceva questo sughetto ? Perché la carne era cara. Io ti parlo di quand’ero bambina. Adesso è cambiato… è tutto caro, non solo la carne. Due anni fa, per festeggiare il compleanno di mio marito, siamo andati a Testaccio e ricordo che abbiamo pagato la pasta cacio e pepe un prezzo esagerato. Vedi com’è cambiato il mondo ? Una volta , quando si era in miseria, si mangiava il cacio e pepe perché era il mangiare dei poveri, mo’ adesso è diventata ‘na specialità, è un mangiare chic.

Gabriella, tu hai viaggiato molto anche all’estero. Cosa provi nel tornare a Roma?

Adesso non posso allontanarmi tanto da Roma perché se vado via sto male, malissimo. Ultimamente sono stata in Grecia per lavoro, a fare un concerto in un teatro in cima a una montagna famosa, mo non me ricordo er nome, e ci sono dovuta stare due settimane. Quando sono tornata a casa non ti dico la gioia. Io ho vissuto in molti paesi, in Venezuela, in Africa, in Messico, in Francia, in Inghilterra… però non posso allontanarmi troppo da Roma, perché mi manca molto. Roma è la mia pelle.

Un tuo giudizio sul Tevere?

Beh, il Tevere una volta era biondo, mo’ è nero. Noi abbiamo il governo che è quello che è, lo sappiamo. Paghiamo tasse, poi però ci sono i Beni Culturali che vanno in malora ed è un po’ una continua lamentela di chi, come me, amano davvero Roma. C’è, per esempio, un posto vicino a Campo de’ Fiori, dove io c’ho vissuto 35 anni, dove c’è un passaggio con un affresco con sopra una Madonna. Adesso non c’è più niente, tutto mangiato dall’umidità. Tornando al nostro fiume, ricordo che mio padre andava a farci il bagno, nel biondo Tevere. Mio papà era il classico romano che passava la domenica sul barcone, in riva al Tevere, a prendere il sole, con la pagnottella, pane e frittata, la cirioletta con la frittata e un buon bicchiere di vino. Comunque il Tevere mi piace sempre, sia chiaro, però se le scale e le sue rive fossero più pulite come quelle della Senna a Parigi, potrebbe diventare un luogo di lettura, di cultura per passarci un pomeriggio. Invece c’è solo erbaccia e sporcizia. Ma lo amo profondamente.

La targa, al civico 18 di piazza Santa Maria Liberatrice (Testaccio)