Marco Presta (attore, scrittore, autore e conduttore radiofonico)    Roma 9.11.2020

                               Intervista di Gianfranco Gramola

“Non vorrei che i giovani considerassero la radio come un mezzo oltrepassato, perché è esattamente il contrario. La radio è un mezzo straordinario, il più moderno che abbiamo. Il più utilizzato, quello che ha il bacino di utenza più grande, perché ogni giorno 35 milioni di persone in Italia ascoltano la radio, in varie fasce orarie”

Contatti: c/o Il ruggito del coniglio coniglio@rai.it

Nato a Roma lì 11 novembre 1961, si è diplomato all'Accademia d'Arte Drammatica "Silvio D’Amico", ha lavorato in teatro con Luca Ronconi, Aldo Trionfo e Andrea Camilleri, per poi approdare alla radio. Insieme ad Antonello Dose dal 1995 scrive e conduce la trasmissione Il ruggito del coniglio, insignita di numerosi premi nazionali (tra gli altri il premio Flaiano e il premio Satira Politica a Forte dei Marmi). In televisione ha lavorato come sceneggiatore. Come autore e presentatore ha realizzato, insieme ad Antonello Dose, Dove osano le quaglie, una trasmissione televisiva andata in onda per 3 edizioni su Rai 3 il sabato sera. Come autore ed attore teatrale, in questi ultimi anni, è protagonista di diversi spettacoli.
È inoltre autore della raccolta di racconti Il paradosso terrestre (Aliberti Editore 2009, Einaudi 2012) e dei romanzi Un calcio in bocca fa miracoli (2011), Il piantagrane (2012), L'allegria degli angoli (2014) e Accendimi (2017), tutti pubblicati da Einaudi. Da alcuni dei suoi libri sono stati tratti degli audiolibri, pubblicati da Emons.

Intervista

Com’è nata la tua passione per la radio?

Nasce come ascoltatore prima, perché da ragazzo c’era una serie di punti di riferimento radiofonici, che erano “Alto Gradimento” , “Gran Varietà” e la domenica mattina c’era Radio Campidoglio” che era poi “Black Out” di Enrico Vaime,  è   stato grazie a lui che ho iniziato a lavorare in radio, perché segnalò il nostro nome, stavano cercando giovani autori per la radio. Parlo di 26 anni fa grosso modo. Fece i nostri nomi, ci chiamarono e cominciò da lì la carriera mia insieme ad Antonello Dose. Quindi nasce come passione da ascoltatore. La radio è sempre stato un mezzo straordinario e all’epoca particolarmente. Poi diventò un mestiere, una professione.

Hai fatto altri lavori prima di fare radio?

All’inizio ho fatto l’accademia di arte drammatica Silvio D’Amico, perché volevo fare l’attore e ho lavorato qualche anno come attore, però contemporaneamente scrivevo e cercavo di fare altre cose. Fino ad arrivare appunto all’incontro con Enrico Vaime con cui abbiamo cominciato a scrivere per la televisione. Prima una cosa per Italia 1 e poi siamo approdati a fare delle cose per la Rai, dal festival di Sanremo a Fantastico. Abbiamo cominciato a lavorare come autori e credevamo di fare gli autori televisivi. Poi è successo che abbiamo cominciato a fare radio e ci siamo accorti che era un mezzo meraviglioso e che ci piaceva parecchio farla.

Ma i tuoi genitori che futuro speravano per te?

Loro pensavano che mi sarei laureato in giurisprudenza. Avevo cominciato a farla, parallelamente all’accademia, solo che non ho studiato molto, avevo fatto solo 5 esami in totale a giurisprudenza, perché l’accademia è una scuola a tempo pieno e quindi ci andavo tutti i giorni per 8 ore al giorno. Loro volevano che facessi l’avvocato perché naturalmente erano spaventati dall’idea di un figlio che voleva lavorare nello spettacolo, anche perché nessuno in famiglia lavorava in quel settore. Quindi non avevo nessun tipo di aggancio, nessuna entratura. Però mi hanno lasciato libero di provarci e di questo devo ringraziarli. Tutto sommato è andata discretamente e sono stato fortunato.

Fra colleghi hai trovato più rivalità o complicità?

Rivalità poca. Io e Antonello siamo un’anomalia, nel senso che facciamo una vita non da personaggi, non da gente dello spettacolo. Abbiamo delle vite abbastanza tranquille e domestiche. Lavoriamo moltissimo e devo dire che il rapporto con i colleghi è stato molto selettivo. Io ho rapporti con persone con cui mi trovo bene, che trovo umanamente gratificanti, quindi Luciana Littizzetto, Neri Marcorè, Lillo e Greg, Flavio Insinna e le persone che mi piacciono, con cui sto bene. Non è stato e non è tutt’ora un vivere nell’ambiente perché fai parte dell’ambiente. Ripeto, faccio una vita tranquilla, direi molto ritirata, per cui invidie o meno le ho lasciate fuori dalla porta, perché vivo come un impiegato, con degli orari da impiegato, lavorando con alacrità. In genere di uno che fa spettacolo si dice: “Genio e sregolatezza”. No, noi lavoriamo 8 ore al giorno, abbiamo un tipo di dedizione artigianale a questo mestiere, il che ci ha permesso di fregarcene dell’ambiente, che peraltro è una grande fortuna perché se non riescono ad inquadrarti, non ti silurano. Noi essendo appunto abbastanza estranei all’ambiente, siamo sempre stati guardati con curiosità e interesse, anche perché eravamo un po’ delle mosche bianche da questo punto di vista.

25 anni de “Il ruggito del coniglio”. Qual è il segreto della vostra trasmissione?

Secondo me il segreto principalmente è il fatto che abbiamo sempre lavorato duro e dedichiamo tutt’ora 8 ore al giorno al programma, a quello che va in onda e a quello che prepariamo per il giorno dopo. Un altro segreto è sicuramente il rapporto con il pubblico che permette al programma di essere sempre nuovo, perché c’è sempre un contributo inatteso da parte delle persone che telefonano. E questo cordone ombelicale che ci unisce al pubblico secondo me è il segreto dell’affezione nei confronti del programma stesso. E’ una grande ricchezza che continuiamo a sfruttare e che continueremo a sfruttare finché il programma andrà in onda.

Hai scritto parecchi libri. Per te scrivere è uno sfogo o il desiderio di regalare un sorriso al lettore?

In realtà perché scrivere è il mio lavoro, sia per la televisione che per la radio, per i libri e per il teatro. Io nasco in realtà come autore. Quando uno a questo tipo di pungolo che lo spinge, magari ha la tentazione di provarci in vari settori. Per la televisione e fiction ho scritto tanto, così come per la radio che ci vede presenti da 25 anni. Scrivere per la narrativa era un mio desiderio a cui sono arrivato in età adulta, perché il mio primo libro è uscito che avevo 46 anni. Però è forse la cosa che mi assomiglia di più ed è forse per certi aspetti, una cosa che mi piace molto, per cui è stata sicuramente un’esigenza, ma è anche una fonte di grande benessere, di grande felicità scrivere. Poi ho avuto la possibilità di lavorare con una casa editrice come la Einaudi che mi aiuta, mi sollecita e mi spalleggia. Scrivere credo che sia nel mio futuro.

Anni fa tu e Antonello Dose avevate una rubrica sul Messaggero, dal titolo “Coraggio … è lunedì”. Com’è iniziata la collaborazione con il quotidiano di Roma e perché è finita?   

Ci chiamò Paolo Gambescia che allora era il direttore del Messaggero e abbiamo cominciato con lui a scrivere i pezzi. E’ andata avanti per tanti anni e il rapporto con il Messaggero è sempre stato ottimo e lo è tutt’ora, perché ora esce un mio pezzo e martedì ne esce un altro, però è normale che le cose cambino, che si trasformino. In questo senso l’anomalia vera è la radio, che va avanti da 25 anni e ne sono molto felice. Con il Messaggero la collaborazione si è interrotta ma magari più avanti riprende, chi lo sa? Fa parte della natura del nostro lavoro ed è bene che sia così altrimenti alcune cose rischierebbero un po’ troppo di diventare di routine e facendo questo mestiere, la routine è uno dei pericoli maggiori. Quindi bisogna cercare di evitarla il più possibile.

Come autori in radio avete carta bianca o c’è la censura?

No, devo dire che di questo siamo molto riconoscenti alla Rai. Siamo molto liberi di scrivere e non abbiamo mai avuto pressioni. Qualche volta è arrivata la pressione del politico che era infastidito o da ambienti esterni, ma mai dalla Rai. Di questa libertà, che è fondamentale per chi fa questo mestiere, dobbiamo dire grazie all’azienda.

Ad un ragazzo che vuole avvicinarsi alla radio, che consigli vorresti dare?

Abbiamo fatto una specie di talent 5 anni fa, che si chiamava “Viva Guglielmo Marconi” , dove chiedevamo di mandarci un file registrato di un minuto e mezzo, per permettere ai ragazzi di proporsi e devo dire che sono rimasto sorpreso, perché i giovani, purtroppo, si concentrano su altre cose. Ad esempio sulla televisione e sui social. Non abbiamo trovato grandi talenti, ti dico la verità, eppure sono arrivate tantissime adesioni e tantissime richieste di partecipazione. Però erano tutti un po’ uguali e questo mi ha sorpreso. Vorrei che i ragazzi leggessero di più e fossero più informati sull’attualità e rielaborassero di più un prodotto originale. Questo non l’ho notato, invece vorrei dire ai ragazzi che la radio è un mezzo straordinario, il più moderno che abbiamo. Il più utilizzato, quello che ha il bacino di utenza più grande, perché ogni giorno 35 milioni di persone in Italia ascoltano la radio, in varie fasce orarie. Quindi non vorrei che considerassero la radio come un mezzo oltrepassato, perché è esattamente il contrario. E che cercassero una strada che li portasse alla radio, ma una strada originale, per dire qualcosa di nuovo. Questo è importante e io credo che sia un mestiere estremamente divertente, per cui vorrei che ci fossero più giovani che la sapessero fare, che la volessero fare e che la facessero bene. Al momento non è così, secondo me. Quindi dobbiamo cercare di avvicinare i ragazzi alla radio e dobbiamo soprattutto avvicinarli anche dal punto di vista professionale e far capire loro che fare la radio è una cosa fighissima, divertentissima, un mestiere meraviglioso, che vale la pena di essere fatto anche e soprattutto da una persona giovane.

Hai un sassolino nella scarpa che vorresti levare?

Devo dire che sono stato fortunato nella mia carriera. Forse l’unico sassolino è che la prima volta che ho presentato i miei racconti ad una casa editrice, mi dissero: “No, non vanno bene, lavoraci di più”. Il libro è stato pubblicato poi dalla Einaudi ed è stata una collaborazione felice, perché è una casa editrice importante.

Quando influenza il  tuo estro creativo la città in cui vivi?

Tanto, perché Roma ha un imprinting molto forte, perché è una città singolare, unica nel bene e nel male. Ed è per certi aspetti anche lo specchio del paese. Quindi mi influenza molto, poi noi parliamo ad un pubblico che va dal Trentino alla Sicilia. Però quel tipo di background per me rimane ed è sempre molto forte. E’ accettato con  simpatia dal pubblico, anche se non è romano e questo perché è una manifestazione sincera del mio modo di essere, non è un atteggiamento. Avere delle radici è importante, siamo tutti legati al nostro posto natio o al posto dove siamo cresciuti. Io penso sia un patrimonio e del resto basta guardare non soltanto ai migliori attori che abbiamo avuto, che attingevano tutti al loro dialetto e al posto da cui venivano, ma  anche  agli scrittori, vale un po’ per tutti, l’importante è rendere universale il posto da cui vieni. Far si che il fatto di essere nato a Firenze piuttosto che a Canicattì, ti caratterizzi e diventi una porta aperta nel mondo, diventi un canale di comunicazione.

Com’è il tuo rapporto con Roma?

Ho un rapporto di amore isterico. Sono molto legato a Roma e non riuscirei  probabilmente a vivere in un’altra città. Però è un rapporto molto faticoso perché  Roma è una fidanzata molto capricciosa e quindi ci vuole molta pazienza. Io abito a Roma sud e quindi molto distante da via Asiago, dove c’è la radio e la mattina presto parto da casa mia per arrivare nel quartiere Prati e combatto quotidianamente con tante situazioni di difficoltà, dal punto di vista della pulizia delle strade, dal punto di vista del manto stradale, dal punto di vista dell’organizzazione della vita cittadina quotidiana. Roma è una città stancante, lo sono un po’ tutte le metropoli e quindi ci devi fare pace. Però poi si fa perdonare dalla sua bellezza.

Perché i romani sono così simpatici, spiritosi e ironici?

Perché se non sei simpatico, ironico e non cerchi di sdrammatizzare, qui diventi matto. Questo vale per i romani ma anche per i non romani che vivono nella capitale. Questo atteggiamento è un modo per sopravvivere alle difficoltà quotidiane, per affrontarle e sdrammatizzarle e non farle diventare gigantesche. E’ un atteggiamento psicologico abbastanza sano che è una nostra grande forza e anche un nostro grande limite, perché ci permette di accettare i problemi e superarli. E’ vero anche che  non ci permette di incavolarci, di indignarci in alcune situazioni in cui invece sarebbe necessario farlo. Quindi diciamo che è una nostra grande forza e  paradossalmente è anche una nostra debolezza.