Pietruccio Montalbetti (musicista, scrittore e scalatore)    Andalo (Trento) 9.9.2023

                             Intervista di Gianfranco Gramola

“Girare il mondo mi ha arricchito moltissimo dentro, è una scuola di vita unica. Io ho sempre viaggiato da solo e il viaggiare mi ha dato una dimensione di me stesso. Mi ha insegnato anche la modestia, perché quando sono sul palco faccio la pop star e quando scendo sono una persona comune, non è che me la tiro”

 

Pietruccio Montalbetti (con il cappello) con i mitici Dik Dik   

Pietruccio Montalbetti, nato a Milano nel 1941, è chitarrista, cantante e fondatore leader nel 1965 dei Dik Dik, storico gruppo pop, beat, rock italiano, nato dalle precedenti formazioni chiamate Dreamers e poi Squali. Ha collaborato con Lucio Battisti, Mogol, Herbert Pagani, Ornella Vanoni, Rita Pavone, Ricky Gianco, Caterina Caselli, Giorgio Faletti, i Camaleonti e Maurizio Vandelli. Appassionato da sempre di viaggi, è stato in Colombia, a Cuba, in Messico, Belize, Guatemala, India, Nepal, Tailandia, Birmania, Ecuador, alle Galapagos, in Perù, Venezuela, nella Guaiana, in Africa e nel Sahara. E’ anche esploratore e scrittore.

Libri

I ragazzi della Via Stendhal - Sognando la California Scalando il Kilimangiaro - Settanta a Settemila - Io e Lucio Battisti - Amazzonia – Io mi Fermo Qui - Enigmatica Bicicletta - Il Mistero della Bicicletta Abbandonata.

Intervista

Com’è nata la passione per la musica? Mi racconti il tuo percorso artistico?

In famiglia non avevo musicisti e in effetti da ragazzo avevo altri sogni, volevo fare l’esploratore e non me ne fregava niente della musica. La prima musica che ho sentito è stata “L’Adagio di Albinoni” e mi piaceva molto. Io abitavo al terzo piano di una  palazzina e al primo piano era venuto ad abitare uno che veniva da Birkenau, un musicista che viveva da solo e mia mamma lo aiutava. Lui in compenso mi ha insegnato a suonare la chitarra. Poi un po’ per gioco ho messo insieme un piccolo complesso insieme ad altri che suonavano la chitarra e ci chiamavamo “I Dreamers”. Però sia Lallo (Giancarlo Lallo Sbriziolo) che Pepe (Erminio Salvaderi) erano miei compagni d’infanzia, con Lallo ho fatto l’asilo insieme, perché abitavamo in un quartiere di Milano dove sono nati anche il comico Cochi Ponzoni, l’attore e scrittore Moni Ovadia, l’attore Aldo Reggiani e poi io e Lallo. Dicevo che con i Dreamers suonavamo un po’ così, come dilettanti, ad un certo punto ho cominciato a sentire gli Shadow, Cliff Richard e il rock and roll e poi ho visto anche un film che era una commedia musicale che si chiamava “Gangster cerca moglie” e lì mi sono appassionato alla musica rock. Per il complesso avevo bisogno di una grande voce e ho sentito Lallo che cantava molto bene, per cui gli ho chiesto se voleva metter su un complesso con me. Ho mandato via tutti quelli dei Dreamers. Nel frattempo è venuto uno, che si chiamava Parazzini, e si occupava della cantante Miriam Del Mare, il quale ci ha chiesto se volevamo fare l’orchestra per l’estate e io gli ho detto che però volevamo chiamarci gli Squali. Io suono la chitarra, Lallo il basso e voce, quell’altro la chitarra e ci mancava solo uno che suonasse le tastiere e uno alla batteria, ma quelli li ho portati io. Poi sono arrivati due studenti universitari che si chiamavano Sergio Panno e  Mario Totano, ma non ci piacevano le canzoni che ci faceva cantare Parazzini e ad un certo punto abbiamo troncato con lui. Lui ci ha fatto causa e noi abbiamo dovuto sborsare 5 mila lire. Nel frattempo noi cominciammo ad avere delle velleità e in quel periodo noi suonavamo in un piccolo locale dove la domenica pomeriggio c’era sempre una grande ressa e la sera andavamo a suonare a Corbetta, al Ragno d’Oro, una balera dove facevano rock and roll e noi riempivamo sempre il locale. Per fare le prove andavamo sempre all’oratorio della chiesa del Rosario e io andavo spesso nel negozio della Ricordi per chiedere se potevano farci un provino, ma dicevano di no perché loro vendevano i dischi. Finché un giorno mi è venuto in mente una cosa, cioè che mio fratello che poi è diventato il fotografo ufficiale di Lucio Battisti e delle copertine dei suoi dischi e si chiamava Cesare Monti Montalbetti, di sera studiava all’istituto Feltrinelli e di giorno, per guadagnarsi un po’ di soldi, era stato assunto all’arcivescovado di Milano. Peraltro il parroco don Angelo aveva fatto il seminario con il segretario dell’allora mons. Montini, quello che poi è diventato papa Paolo VI. Sapevo che la Ricordi procurava gli organi da chiesa a tutta la Curia. Allora tramite don Angelo e mio fratello, mi sono fatto fare una lettera di raccomandazione che diceva che eravamo dei buoni parrocchiani. Siamo arrivato lì al negozio e questo qua pensando di aver a che fare con dei buoni clienti e quindi mantenere un buon rapporto con la Curia, ci fece salire al piano di sopra dove c’erano gli studi di registrazione e ci ha fatto fare il provino. Allora gli studi di registrazione non erano mica come quelli di adesso, ma era la sala cinematografica di un oratorio di via dei Cinquecento, dove la domenica proiettavano i film e durante la settimana si apriva un pannello e c’erano 4 piste e dei separé e si suonava. Abbiamo fatto questo provino cantando delle canzoni dei Beach Boys e dei Churchill’s.

Io con Pietruccio Montalbetti

Ma intanto avevate dei lavori?

Io non avevo un lavoro fisso e allora non c’erano le tutele per i lavoratori. Lallo faceva l’odontotecnico, Pepe lavorava in banca e gli altri  due erano studenti universitari, per cui chi si dava da fare per il gruppo ero solo io. Un giorno Iller Pattacini, il direttore artistico della Ricordi, mi ha chiamato e mi ha detto che gli piaceva la nostra musica, il nostro sound. Era il periodo dei complessi e stavano nascendo i Beatles.  Però per essere sicuro dovevamo fare un secondo provino. Una  volta nei cinema si poteva fumare e per far defluire il fumo, lasciavano aperte le porte. Io sono arrivato prima degli altri in questo cinema dove si facevano i provini e nella semi oscurità ho sentito il suono di un pianoforte. Mi sono avvicinato e ho visto un ragazzo dall’aria molto simpatica.

Lucio Battisti? E’ così che l’hai conosciuto?

Si e lui mi ha chiesto: “Ma tu sei un tecnico?”. “No -risposi io- ho un complesso e adesso arriveranno anche gli altri per fare un provino. E tu?”. “Io suono in un’orchestra, mi chiamo Lucio Battisti e vorrei farti sentire le mie canzoni” mi disse. Poi arrivarono i miei compagni e i tecnici e noi facemmo il nostro provino. A mezzogiorno c’era un’ora di pausa, i tecnici andarono a mangiare e Lucio aspettava per fare il provino. Lui mi disse: “Senti, io sono venuto qua in tram. Tu che hai la macchina, mi puoi aspettare finché ho finito il provino così mi accompagni a casa?”. Io l’ho accontentato. Mentre aspettavamo i tecnici, Lucio volle farmi sentire alcune sue canzoni con la chitarra. “Ti piacciono?” mi chiese e io risposti di si, però tra me e me mi sono detto: “Poverino, questo qua al massimo farà il posteggiatore”. Quei pezzi non avevano niente a che fare con quelli che fece più avanti. Dopo il provino l’ho accompagnato a casa, era il 1966 e doveva andare a fare un tour con l’orchestra de “I Campioni” e lui alloggiava in una pensione.

Ma com’è nato il nome Dik Dik?

Mi ha chiamato la Ricordi e mi ha detto che hanno deciso di farci un contratto, quindi bisognava trovare un nome al complesso. Allora telefonai agli altri ed eravamo tutti gasati. Io sono un grande lettore, leggo Platone, Socrate, Aristotele e in quel periodo stavo leggendo la storia del Kon – Tiki, dell’esploratore e scrittore Thor Heyerdahl. Lui voleva dimostrare che la colonizzazione della Polinesia poteva essere avvenuta in epoca precolombiana. Questo nome Kon – Tiki mi rimbalzava in testa e io volevo trovare un nome che avesse delle consonanti inusuali. In quel periodo aveva eruttato  anche un vulcano che si chiamava Krakatoa e quella “K” mi piaceva. Per caso ho trovato sul vocabolario il nome Dik Dik , che è  un antilope africano. Leggevo che durante l’occupazione degli inglesi nella savana africana, dovevano andare a caccia e spesso incontravano questi animali che per paura facevano il verso dik dik. Allora ho scritto il nome Dik Dik su un cartellone e l’ho attaccato al muro dell’ufficio e quando lo hanno letto i miei compagni e quelli della Ricordi sono rimasti basiti e dopo abbiamo  firmato il contratto. Mi ricordo che una segretaria ha detto: “Non so cosa voglia dire Dik Dik, ma è un nome da successo”.

Torniamo a Lucio Battisti.

Era il 24 dicembre, vigilia di Natale e stavo attraversando piazza del Duomo, perché la Ricordi era dall’altra parte della piazza e mi sento tirare per la giacca: “Ao’, so Lucio, ti ricordi de me? Stasera devo suonare”. Lui pigliava 15 mila lire ogni volta che suonava. Viveva da solo in una casa popolare in via dei Tulipani ed era molto attaccato alla madre. Dopo averlo salutato, sono andato da mia mamma e gli ho raccontato dell’incontro con quel ragazzo simpatico. E mia mamma: “Scusa, lo lasci solo la vigilia di Natale? Adesso tu vai giù e gli dici che il giorno di Natale lo passa con noi”. Allora sono andato nel locale dove suonava con I Campioni e ricordo che aveva i calzoni neri, una giacca rossa, la fender e come mi ha visto era tutto contento. Finita la serata ho detto a Lucio dell’invito di mia mamma per il giorno di Natale e lui accettò. Arrivò a mezzogiorno con un fiasco di vino e mia madre l’ha accolto molto bene e da lì in poi lo trattava e lo accolse sempre come un figlio. Ricordo un fatto molto toccante di quel giorno. Lui era molto attaccato a sua mamma Dea che poi ho conosciuto. Lui si era trovato molto bene con la mia famiglia e aveva anche il numero di telefono, che stava appeso sul corridoio. Quel giorno arriva una telefonata, era la mamma di Lucio che voleva parlare con i figlio. Gli ho passato Lucio e gli diceva: “Dai mamma, non piangere mamma. Sto bene e qui sono come in una famiglia e mi vogliono bene”. Da lì in poi la nostra vita è sempre stata unita.

Ho letto che hai scritto un libro su Lucio Battisti.

E’ vero, ma adesso ne viene fuori un altro, però molto più intimo dal titolo “Storia di due amici”.

Avete mai lavorato insieme?

Devi sapere che il nostro primo disco fu un pezzo di Len Barry che si chiamava “One  two three (uno due tre. ndr) ed era un pezzo un po’ beat e sull’altra facciata del disco ho voluto mettere la canzone “Se rimani con me”, firmato sia il testo che la musica da Lucio Battisti. Quando l’ha visto era tutto felice. Ma  una storia vera che ho scritto in questo libro che uscirà è che in molti si vantano di averlo scoperto.

Com’era il tuo rapporto con Battisti?

Il mio rapporto con Lucio Battisti era soprattutto umano ed è stato così per tutta la vita. Chi ha iniziato tutto è stata Christine Leroux, una ragazza francese che era la responsabile delle edizioni Les Copains. Lei ha visto fuori sulla strada Lucio e gli ha chiesto: “Ma Lucio, cosa fai?” e lui: “Io suono in un’orchestra con il cantante Roby Matano”. E lei: “Se vuoi venire a lavorare da me, facciamo delle cose”. Lei per aiutare Lucio ha chiesto a Roby Matano , amico di Gene Colonnello, che era il cantante e l’autore della canzone “Non ho l’età”,  cantata da Gigliola Cinquetti, che quell’anno  aveva vinto il festival di Sanremo. Allora ha fissato un appuntamento con la CGD, è arrivato Sugar, il proprietario della casa discografica, ha sentito le canzoni ma non era interessato e l’ha spedito a casa. Allora la Leroux pensò di andare da Mogol e mi ha chiesto di andare anch’io. Mogol ascoltò le sue canzoni e disse: “No, non mi piacciono le tue canzoni”. A me dispiaceva molto per lui. “Però se vuoi – aggiunse Mogol – possiamo lavorarci su”. Mogol ha avuto una funzione importante, cioè quella di aprire una cassaforte dove dentro c’era il genio di Battisti.

Intanto i Dik Dik che facevano?

Noi abbiamo inciso “Sognando la California” abbiamo avuto un grande successo e noi per dare una mano a Lucio, l’abbiamo fatto fare il nostro autista ad un Cantagiro, così lavorava e si guadagnava qualcosa. Noi eravamo già conosciuti e lui aveva una certa soggezione nei miei confronti ma la nostra amicizia è durata tutta la vita. Poi quando lui si è ritirato, continuava a fare dischi e io lo vedevo spesso. Quando non eravamo nessuno e abbiamo inciso “Sognando la California”, come dicevo prima, non pensavamo a questo grande successo e nell’estate gli altri lavoravano e avevano solo il mese di agosto per le ferie, mentre io che non lavoravo ero libero di fare quello che volevo. Allora ho proposto a Lucio di fare un viaggio verso l’Adriatico e fare qualche serata e tra una canzone e l’altra racconto un po’ la mia vita che è stata tostissima, perché ho fatto il collegio e tante altre cose. Lucio era molto restio a raccontarsi perché lui da bambino ha sofferto molto. Quando è morto ho conosciuto sua sorella Albarita che come Lucio era una che parlava poco, però mi ha raccontato che da bambino Lucio era obeso e a volte si metteva davanti ad un muro, in silenzio. Difatti quando poi finalmente dopo questo viaggio verso l’Adriatico, siamo arrivati al mare, si è tolto i pantaloni e ho visto che aveva delle smagliature perché era dimagrito di colpo. Non aveva detto niente poi me l’ha spiegato. “Sai, io  ero obeso e ho sofferto molto, avevo questo complesso e i miei amici mi prendevano in giro”. Nel mio libro racconto una storia molto semplice e adesso molti si vantano di averlo scoperto, di averlo lanciato ma chi ha capito che Lucio aveva delle potenzialità è stato Roby Matano, il cantante de I Campioni e Christine Leroux. Io potrei raccontare che ho scoperto e aiutato Battisti ma non l’ho mai fatto anche perché il mio rapporto con lui è stato un rapporto umano.

Tu hai scalato montagne, hai fatto l’esploratore, hai girato mezzo mondo. Questo viaggiare cosa ti ha lasciato dentro?

Mi ha arricchito moltissimo dentro, è una scuola di vita unica. Io ho sempre viaggiato da solo, ho fatto il solitario e il viaggiare mi ha dato una dimensione di me stesso. Girare il mondo mi ha insegnato innanzitutto la modestia, perché quando sono sul palco faccio la pop star e quando scendo sono una persona comune, non è che me la tiro. Poi per girare il mondo ci vuole uno spirito di adattamento altissimo. Io mangio perché devo vivere, non vivo perché devo mangiare e mi adatto a tutto. Ho scoperto anche delle tribù di indios sconosciute. Quando racconto queste cose la gente mi dice: “Tu ha i soldi, tu hai tempo e tu hai coraggio”. E’ vero, ad esempio io sono stato in India 4 volte, il viaggio costa 650 euro andata e ritorno. Non mi porto dietro il cellulare e la prima notte dormo in hotel per smaltire il jet lag e per telefonare a casa e dire che sono arrivato. Poi per capire un po’ ed entrare in sintonia con questo popolo devi dormire nei loro alberghi che costano due rupie, ossia 2 euro. Andare a mangiare nei loro ristoranti che costa 2 rupie, ossia 2 euro e praticamente ti mettono su una foglia di palma del cibo. Ho sempre viaggiato sul tram, ma non quello turistico, quello degli indiani dove sopra fanno anche da mangiare. Se tu vuoi capire un popolo, devi entrare in sintonia con loro ,vivere come loro. Io mi ricordo che ero in India ed ero arrivato a Katmandu, dove si radunano gli sherpa. Avevo deciso di attraversare la catena dell’Himalaya. Stavo parlando con degli sherpa ed ero un po’ trasandato nel vestire, avevo la barba un po’ lunga perché non è che mi faccio la barba e la doccia tutti i giorni. Stavo parlando e c’erano due bolognesi vicino a me che evidentemente mi hanno scambiato per uno sherpa e dicevano: “Ma secondo te ci faranno gli spaghetti pomodoro basilico?”. Volevo intervenire e dire loro: “Ma venite in India a rompere le scatole e chiedere gli spaghetti al pomodoro col basilico?”. Ma ho lasciato perdere. 

Sei sposato?

Ho sposato una psicologa, è fantastica e viene dall’altissima società borghese, di una famiglia di una grande industria alimentare. Quando ci siamo incontrati non sapeva neanche chi era Lucio Battisti.

Vivi a Milano, vero?

Vivo a Milano in una casa molto elegante, raffinata, con personale di servizio, non ho mai fumato in vita mia, mai uno spinello e ho sempre fatto palestra. Ho 82 anni e dico che voglio invecchiare bene. Detesto quelli che dicono che si sentono giovani dentro, ma per invecchiare bene bisogna far funzionare il cervello. Fra l’altro io studio astrofisica, astronomia, filosofia, ho scritto 7 libri, ho tre televisori che funzionano poco, che guardo poco, a volte qualche telegiornale, per tenermi informato, ma leggo molto.

Cosa stai leggendo ora?

Sto leggendo un libro di Riccardo Rovelli che è uno scienziato e che ti spiega il tempo, i buchi neri e altro. Un libro molto interessante. Ho ancora un mondo da scoprire e abbiamo poco tempo perché la nostra vita è un battito di ciglia, come si dice. Quindi per invecchiare bene bisogna far funzionare il nostro cervello, anche se è tutta una questione di casualità. Io ho inserito nella mia filosofia il dubbio, che già Socrate, Platone e persino Sant’Agostino dicevano che è l’unica cosa che ci accompagna nella nostra vita, anche se qualcuno dice che è il pensiero della morte che ci accompagna, ma la morte non c’entra niente, la morte verrà quando sarà l’ora. C’è una bella frase di Giulio Cesare che a quello che gli chiese: “Lei che è imperatore, come finirà la giornata?” rispose: “La giornata finirà e ne seguirò le conseguenze”.

Torniamo al dubbio.

Il dubbio ha una sfaccettatura importante, ci sono quelli che sono certi e non approfondiscono mai, si limitano semplicemente a dire “Sono certo”. Chi ha invece il dubbio ha sempre il desiderio di capire, di sapere il perché. Come faccio io a sapere di arrivare a stasera, non sono superstizioso, non credo in Dio ma ho il dubbio. Tra l’altro c’era Margherita Hack, che era una grande scienziata, che diceva: “Non è necessario avere un concetto religioso per avere una morale”. Io una morale ce l’ho, se posso fare del bene, lo faccio, se posso essere utile facendo beneficenza, senza sventolarla in giro, la faccio volentieri e continuo a farla. Sono stato parsimonioso e ho un patrimonio sufficiente per vivere bene. Suono perché mi piace suonare e lo faccio anche perché mi piace stare sul palco e oltre a suonare racconto al pubblico  delle cose e poi perché è un dovere contrastare questa musica moderna che non è musica. Inutile dire che è un’altra generazione, non è vero. 50 anni fa c’erano dei grandi musicisti ma ricordo anche un musicista che si chiamava Stockhausen che faceva una musica che non piaceva tanto, difatti non si è più sentito parlare di lui. Questi cantanti moderni che stanno facendo tanti soldi, stanno rovinando i giovani perché quelli lì hanno l’aspirazione dell’apparire e non dell’essere. Sono tutti pieni di tatuaggi … mi diceva un medico che l’inchiostro dei tatuaggi, con il tempo, si infiltra nel corpo fino al fegato e poi arrivano i tumori. Questi sono affari loro, per carità. L’automobile, io la definisco una bara  a 4 ruote. Ce l’ho anch’io un’auto, ma la uso il meno possibile. Anche quella del cellulare è una cosa mostruosa, ce l’hanno tutti, ma poi dipende molto da come lo usi. Rita Levi Montalcini diceva: “Il cervello degli uomini è uguale, non esistono le razze ma i razzisti, che bisogna sconfiggere con l’intelligenza”. Io non faccio distinzione fra neri, bianchi o gay. Io conosco degli omosessuali che sono persone normali come noi. Detesto quelli che dicono con disprezzo “checche” o quelli che ostentano la loro prestazione fisica e sessuale.

Un domani, come vorresti essere ricordato?

Come una persona perbene, una persona onesta che non se l’è mai tirata e continuerà a non tirarsela anche se la gente per strada mi riconosce. Se noi siamo arrivati al successo lo dobbiamo alla gente e quindi un ringraziamento a tutte le persone che hanno comprato i nostri dischi e ci segue con affetto.