Stefano D’Orazio (musicista)     Milano 6. 5. 2004

              Intervista di Gianfranco Gramola  

Orgoglioso delle sue radici romane

 

È nato a Roma il 12 settembre 1948. A 6 anni trova nella calza della Befana la sua prima batteria, che suona con due mestoli da cucina dopo aver rotto quasi subito le bacchette tradizionali per la troppa foga. Durante il liceo classico finge di essere un bravo batterista per entrare in un gruppo: dopo aver comprato cassa, rullante e Charleston per 35 mila lire (l'anticipo di anni di paghetta), impiega una settimana per imparare un personalissimo ritorno, che poi adatta a diverse canzoni. Con le mance del suo lavoro estivo come portapacchi di uno stabilimento balneare di Ostia compra la prima batteria completa, una Hollywood rossa, e forma la band Sunshine, che suona solo pezzi strumentali degli Shadows perché non possiede un impianto audio. I Sunshine si esibiscono al Teen Club (uno scantinato della Chiesa Anglicana a Roma frequentato da studenti americani) racimolando i soldi per acquistare finalmente un impianto voci, che però va letteralmente in fumo la prima volta che viene acceso per colpa del voltaggio sbagliato, costringendo il gruppo a ripiegare sugli strumentali degli Shadows. La sua incursione nel teatro underground prosegue accompagnando con la batteria lo spettacolo "Osram" di Carmelo Bene e Cosimo Cinieri. A 17 anni entra nel gruppo dei Naufraghi e partecipa ai provini del Piper di Roma (gare con l'applausometro in cui era determinante il numero di amici in platea) vincendo in un'occasione contro Mal e i Primitivs. Apre due cantine club, nelle quali fa esibire i gruppi inglesi venuti a Roma per il Piper, e suona come turnista alla RCA. I suoi ultimi due gruppi sono The Others (specializzato in musica R&B) e Il Punto, con il quale partecipa al Festival di Caracalla assieme a band storiche come il Banco di Mutuo Soccorso. Con Il Punto suona nel musical teatrale "Cassandra 2000" scritto da Tony Cucchiara. Nel 1971 sostituisce Valerio Negrini come batterista dei Pooh. Non ha inciso dischi da solo, perché preferisce dedicare tutto il proprio talento artistico al progetto Pooh, nel quale si occupa anche degli aspetti organizzativi, degli allestimenti dei live e di altre importanti particolari extramusicali. È stato per 5 anni il produttore artistico di Lena Biolcati (che ha vinto un Festival di Sanremo) e oggi dirige, con Varis Casini, l'agenzia di management Tam Tam, che si occupa della promozione dei Pooh ma anche di balletto classico e spettacoli comici. Dal 2002 si dedica anche al musical. Ha scritto la maggior parte delle liriche del musical Pinocchio dei Pooh.

Ha detto:

- Quattro milioni e mezzo di italiani, dalle 8 alle 10 del mattino, sono nelle mie condizioni per aver scelto di fare i pendolari. E così pensi, fantastichi, telefoni, ascolti la radio e a volte fai amicizia con quello affiancato nell’ingorgo.

- Con Silvia ho un rapporto splendido e la considero mia figlia a tutti gli effetti. Lei fa l’attrice e ha superato tutte le selezioni per il musical “Pinocchio” a mia insaputa.

Curiosità

- La sua prima esperienza come paroliere è datata 1975 quando firma il testo di “Eleonora mia madre”.

- Collezionismo. Possiede oltre 6 mila elefantini di grandezze e materiale diversi, dalla pietra pomice all'alabastro. La raccolta è iniziata con i regali dei compagni di liceo, dopo che ha scritto "Il giro dell'uomo intorno all'elefante" (una favoletta sull'evoluzione involutiva dell'uomo) per il giornalino della scuola.

- Oltre a essere uno spettatore appassionato di cinema ("Ecce Bombo" di Nanni Moretti è il suo film cult), ha uno studio di produzione casalingo, nel quale si cimenta con ottimi risultati nella regia e nella post produzione di filmati.

- Dai 9 ai 12 anni ha praticato nuoto agonistico al Foro Italico di Roma, vincendo parecchie gare regionali: era veloce in tutti gli stili tranne nella farfalla. Al liceo è passato all'atletica leggera: corsa campestre, 1000 e 3000 metri e nel calcio è simpatizzante della Roma (derby in famiglia col padre laziale).

- Legge molto e di tutto: l'ultimo è "Il codice Da Vinci" di Dan Brown. Fra i suoi autori preferiti ci sono Gabriel Garcia Marquez e Cesare Pavese.

Intervista

Lo incontro “telefonicamente” negli studi della “Tamata” (v. Salomone Oreste) di Milano, l’agenzia dei mitici Pooh, dove stanno registrando il loro ultimo cd, dal titolo provvisorio “Ascolta”.

Com’è il tuo rapporto con Roma, Stefano?

Ho un  rapporto di grande amore, che poi come tutti gli amori uno più gli sta lontano e più gli manca. Sicuramente Roma ha segnato le mie origini, le mie evoluzioni e i ricordi che sono poi quelli che ti lasciano il segno. Bene o male fino a 20 anni riuscivo a starci sempre fisicamente. Si lavorava in giro e si tornava quasi sempre a Roma a dormire, pure se si andava a cantare a Reggio Calabria. Per anni c’era questo punto di riferimento che era “casa”. Adesso è sempre rimasta “casa” perché c’è  la mia famiglia, per cui sempre faticosamente riesco a tornarci ogni 15 giorni e poi sempre di meno. Non si capisce perché. Una volta questo lavoro mi lasciava più tempo per le altre mie cose, compreso il fatto di incontrarmi con gli amici e quant’altro. Adesso con il passare del tempo ci rendiamo conto che quello che noi facciamo, ci mettiamo il doppio del tempo per farlo. Forse perché tutto si è evoluto e quindi anche la città di Roma raramente mi riesce a frequentarla. Ammetto però che è un peccato perché a Roma ho la famiglia, gli amici d’infanzia, tutti amici che non fanno parte del mio mondo e che mi riportano con i piedi per terra ogni volta che torno a Roma e che li rivedo, perché mi trovo finalmente a non parlare di musica. Amici che fanno altre attività e3 che fanno parte del quotidiano. Roma comunque l’ho vista cambiata ultimamente. “ Quand’ero ragazzino io - mi racconta spesso mio padre -  Roma era veramente bella”. Io me la ricordo più vivibile. Adesso se voglio appropriarmene aspetto che si facciano le 5 del mattino e vedo in giro solo i camion della nettezza urbana e lì me la rivedo, me la rigodo e riesco ad attraversarla in un quarto d’ora, passando dal Colosseo a fontana di Trevi, da Trinità dei Monti a Villa Borghese  in tempo reale. Cose che durante il giorno per fare due chilometri ci metti una vita.

Qual è il tuo angolo romano del cuore, quello che ami?

E’ tutta la zona relativa a fontana di Trevi e tutti quei violetti intorno perché lì io avevo un club, praticamente una cantina dove agli inizi suonavo ed è un posto dove me lo vivevo a tempo pieno. Ci venivo nelle prime ore del pomeriggio, si suonava poi si stava lì seduti senza far niente o a cuccare, aspettando che passassero le straniere a fontana di Trevi per il tradizionale lancio della monetina. Poi alla fine si andava a mangiare la pizza  in qualche locale. Tutta quell’area intorno alla fontana mi è molto cara per mille ricordi di gioventù, per i miei inizi di musicista. Erano anni di grande aggregazione. Ci si trovava anche la sera tardi per provare la musica e dopo quando si usciva dal club ci si ritrovava lì in mezzo ad un mondo che era veramente diverso da quello che c’era di giorno. C’erano due facce, la Roma  notturna e quella diurna.

Come mai i romani stanno un po’ antipatici al resto d’Italia?

Ma, sai, c’è questo luogo comune che dice che il romano ha poca voglia di lavorare. Io devo dire che, fortunatamente, mi fa piacere entrare nella categoria dei romani e che ti garantisco che non è assolutamente vero quello che si dice intorno al romano. C’è da dire che forse tra uscire per 30 secondi per andare in un fasto food a Milano dove, tra pioggia e nebbia come c’è oggi, una giornata terrificante nonostante sia il 6 di maggio, non vedo l’ora do tornare in ufficio e stare tranquillo, nel senso che qui non si uscirebbe mai di casa per affrontare la nebbia e gli spifferi che ci sono. A Roma invece se uno esce per farsi un panino o un tramezzino, anche a febbraio, sta fuori volentieri 10 minuti di più. Quindi gli orari sono un po’ diversi. C’è da dire che a  Milano dopo la sera, se telefoni in ufficio non trovi nessuno, mentre a Roma spesso  trovi qualcuno fino alle 21.30. Poi alle 8.30 del mattino non trovi nessuno (risata). Ci sono  proprio dei sistemi di vita, di lavoro che credo sia dovuti proprio alla latitudine. In uno spicchio di pianeta diverso, come sia giusto che sia. Non possiamo pretendere di avere le stesse abitudini degli esquimesi, no?

Hai ragione. Stefano, per un’artista Roma cosa rappresenta?

A Roma c’è tutto, c’è ogni tipo di stimolo artistico. Basta girarla per rendersi conto di quanta storia c’è in ogni angolo e in ogni centimetro di Roma. Alzi il naso o l’abbassi e ti trovi a mettere i piedi dove qualcuno, 2000 anni prima di te, ha fatto delle cose. Quindi non si parte mai da zero, ma da un punto di riferimento. Roma è stata molto stimolante negli anni 65-67 per il teatro dell’ avanguardia. Mi ricordo che suonavo nelle cantine del Big ’72, in piazza Gioacchino Belli con Carmelo Bene che faceva le sue prime sortite dei suoi monologhi, delle sue performance underground. Poi un grande stimolo fu quello del mitico Piper. Grande locale dove si poteva suonare e  fare una musica dove altrove la trovavi solo in Inghilterra o ad Amsterdam, ma in Italia non c’era ancora. Quindi c’è stato questo punto di aggregazione di partenza che poi ha contaminato tutte le regioni d’Italia e quindi venne fuori il Piper di Milano, il Piper di Viareggio, di Bologna, ecc… Mi ricordo che facevo il giro dei Piper, perché c’erano dappertutto. Si chiamavano tutti così, in quanto questo locale è stato l’inizio della maniera diversa di porsi di fronte alla musica, il momento di cambiamento proprio anche di approccio, non solo di farla la musica, ma anche di porla. Poi non dimentichiamo che Roma ha inventato il cinema italiano, perché è nato a Roma e poi si è sviluppato con la televisione. Questo punto di riferimento, anche per quello che erano le proposte diverse, nuove, delle forme di comunicazione artistiche che erano abbastanza diverse, per tutti i letterati che hanno vissuto, che ci sono nati e che per Roma hanno trovato ispirazioni, dai Moravia a Pisolini, ecc… da qualunque punto arrivassero, una volta a Roma si trovavano a raccontare storie in chiave romana, anche come tipo di filosofia. Lo stesso dialetto romano è stato esportato nella comicità, il che vuol dire che ha avuto un grandissimo peso culturale, senza però dimenticarci della storia millenaria che Roma ha. Non dimentichiamoci del Colosseo e di San Pietro e di tutto ciò che circonda questa città che per la sua storia è stata chiamata Città Eterna. Ed è una città sempre in evoluzione e piena di stimoli, una città che ha seminato cose che adesso si fanno anche altrove, perché è sempre all’avanguardia. C’é sempre questa diatriba fra Milano e Roma, no? Milano diciamo che è più europea, forse perché è più contaminata da un certo tipo di influenza mitteleuropea. Roma rimane invece un punto di riferimento e non ha uno sviluppo di idee, ma una fucina di idee, che è abbastanza diverso.  

Ma per te, esiste una Roma da buttare?

Non da buttare, ma c’è una Roma da rimetterci le mani. Penso che gli anni ’60 abbiano fatto dei danni irreparabili dal punto di vista urbanistico ed estetico, perché l’avvento del palazzinaro, delle borgate selvagge e dell’abusivismo edilizio abbia segnato veramente delle cicatrici incredibili su Roma che sarà difficile curare.. Praticamente ci vorrebbe un altro Nerone che bruci tutta questa città per poi ricostruirla. Comunque devo dire che Roma è stata, nel corso della sua storia, violentata molte volte ed ne è uscita sempre in piedi e penso che tra qualche anno riuscirà a far finta che anche queste cose facciano parte di un episodio che poi diventerà storia. Quando fra 300 anni, qualcuno passerà sotto a questi “mostri”, questi palazzi a schiera, fuori da ogni logica, vedi Corviale, guardandoli dirà:” Ecco, questa è  l’architettura del 1960” e ci saranno i giapponesi che faranno le foto con lo sfondo di queste porcherie.

Parliamo della tua professione. Qual è stata la tua più grande soddisfazione?

Ma io devo dire che sono stato molto fortunato. Ho fatto un mestiere che era quello che volevo fare, in più mi hanno pure pagato (risata). Poi, vittima e carnefice di tutto quanto m’è successo, in quanto con i Pooh abbiamo sempre lavorato sulla nostra pelle, cioè non siamo mai stati artisti di qualcuno. Noi abbiamo una casa discografica, non abbiamo un manager, ma abbiamo un produttore. Siamo totalmente auto gestiti. Quindi dalle prime idee, al disco finito, dagli eventi televisivi a quelli che raccontiamo e a quello che siamo, in qualche maniera siamo rigorosamente sempre noi e ci riproponiamo. Quindi le soddisfazioni in questo senso sono tante perché non c’è nulla che ci sia arrivato per merito di qualcun altro. Tutto quello che abbiamo fatto, nel bene e nel male, è tutto merito nostro, per cui questa cosa è una bella soddisfazione. Si, ci sono un sacco di altri eventi, sai Gianfranco, che ci hanno dato soddisfazione, come quello di essere stati fatto Cavalieri della Repubblica che per un attimo ci ha fatti sentire come i Baronetti (i Beatles), o al fatto che a Roma siamo raffigurati anche nel Museo delle Cere e questo è bello. Sono tante soddisfazioni che messe insieme ti danno carica. Poi c’è la miriade di situazioni che ci derivano dall’affetto con cui ci circondiamo e da un pubblico che, onestamente, crediamo di non avere mai tradito e che sicuramente ha fatto una gran parte della nostra storia, perché se non ci fosse stato un pubblico che, puntualmente, anno dopo anno avesse sostenuto le nostre forse, probabilmente avremmo smesso di cantare.

Delusioni?

Anche quelle sono tante. Sono doverose, anche perché senza quelle non si cresce. Rammarico, a volte, per alcune scelte che abbiamo fatto e poi, non sappiamo come, sarebbero andate a finire in un’altra maniera, ma che magari ti fanno dire: "Se avessimo accettato, tornando indietro, di trasferirci negli Stati Uniti, come ci era stato proposto lavorare attentamente, con la stessa passione con cui abbiamo lavorato in Italia, anche in altre posti, forse avremmo avuto uno spazio maggiore oggi". Ma tutto sommato noi eravamo contenti di stare a lavorare a casa nostra e nel frattempo i Pooh erano cresciuti, avevano dei figli e preferivano avere “una tantum”, un rapporto con la vita che tutto sommato è quello che vogliamo. Lasciare tutto e diventare pescatori di uomini, poi ti danno le chiavi del Paradiso, no? Però nel frattempo hai un Inferno.

C’è stato un momento in cui hai deciso di mollare tutto?

Ma, sai, a turno noi quattro abbiamo delle voglie di evasione , voglia di scappare via, di azzerare tutto. Però devo dire che siamo molto uniti e tra noi c’è un rapporto di grande amicizia e quando uno è in fase calante gli altri tre lo sostengono, lo lasciano vivere, lo lasciano in pace. Non è mai successo si essere in fase calante tutti e quattro contemporaneamente, per fortuna. Per cui quando queste cose succedono a me o ai miei compagni, sono passate quasi indolore. Non si è ami arrivato alla voglia di non vederci o di separarci. Non è mai successo. C’è stato, come  in tutti i rapporti, a volte un po’ di alti e bassi, ma non essendo un’artista singolo bensì in quattro su qualsiasi decisione segue un dibattito e questo a volte è faticoso.

Qual è il tuo tallone d’Achille, Stefano?

Bella domanda, Gianfranco. Io sono molto sensibile dal punto di vista emozionale. E questo è un bene perché tutt’oggi riesco ad emozionarmi di fronte a delle cose che potrebbero essere banali, anche se poi, per me, fanno la differenza quando poi cerchi di raccontarle, perché essere un autore e interprete significa anche catturare le piccole emozioni, queste piccole emozioni e riuscire a darle a qualcuno. Se poi queste pillole le inventi e basta e non le vivi, è molto difficile riuscire a descriverle. E credo che questa mia fragilità su questo mio fronte dove, come ti ripeto, mi commuovo facilmente quando vedo, che so, un bambino che piange in mezzo ai bombardamenti mi viene un magone che non ti dico. Questa mia fragilità, in questo senso, che in un certo senso è anche la mia forza per certi versi, perché riesco poi a raccontare cose che non si sono più sentite dire, ma che sono successe a me.

Il complimento più bello che hai ricevuto?

Tanti, non uno. Ad esempio quando mi dicono che nelle storie che ho raccontato mi ci sono ritrovato. E’ successo anche a me. Vuol dire che sono uscito dal mio personale stretto e sono entrato un pochino nel collettivo. Una canzone è un emozione che appartiene a qualcuno e non è più tua ma diventa di tutti. Comunque sapendo che con una canzone trasmetto emozioni mi fa stare molto bene.

Che rapporto hai con la Fede?

Io ho avuto un itinerario abbastanza normale. Sono cresciuto in una famiglia cattolica, che praticava. Sono stato anche chierichetto per un sacco di anni e ho dei ricordi bellissimi di quell’attività. Strada facendo ho perso un pochino quelli che sono i connotati di cattolico doc. Mi sono fatto una mia idea di cosa ci sia dall’altra parte, se c’è o no  qualcuno dall’altra parte. Credo che il nostro piccolo Paradiso ce lo dobbiamo trovare e meritare tutti i giorni qui, su questa terra. Sentirsi si di passaggio, perché in realtà lo siamo, ma di condividere con più gente possibile i tuoi momenti di felicità. Il fattore “altrui” nella felicità non c’è e allora bisogna cercare di fare qualcosa per  metterci una pezza.  Ed è stata fatta una grande cosa che penso sia stato anche il motivo per andare avanti per noi è quella di essere usciti dalla logica della Hit Parade, cioè di fare un disco per poi fare delle serate, per poi fare delle gare in televisione, per vincere dei Telegatti o farci dare dei dischi di platino. L’aver trovato, invece, delle motivazioni più importanti nella musica per continuare dopo 20 anni a fare musica, altrimenti tutto diventa una noia mortale. Diciamo che tutti gli itinerari belli, gioiosi e positivi gli abbiamo gia  vissuti. Più di così penso che sarà impossibile o meglio al massimo sarà possibile ripetere le motivazioni, possiamo forse avere ancora dei dischi di platino o dei Telegatti, questo si, però essere arrivati, in una condizione fortunata, in un prestigio dal punto di vista di rispettabilità, di fiducia da parte del nostro pubblico e che ci consente, di tanto in tanto, di lanciare delle iniziative che ci fanno stare bene dentro, cioè di pensare anche ad altre cose, come la nostra collaborazione all’inizio con il WWF per poi passare attraverso Telethon e alla Rock on the World. Quindi in ogni nostro concerto ci mettiamo in parallelo con l’operazione, chiamiamola di beneficenza, se questa parola ha ancora un senso. E lì siamo con loro, con queste organizzazioni, a portare a casa dei risultati facendoli vedere e ad impegnarci in prima persona nel dare e realizzare delle cose, come il Conservatorio che andiamo ad inaugurare tra 20 giorni in Nicaragua per i bambini del posto, affinché possano andare ad imparare a suonare qualche strumento e possano andare in tournee e con i soldi guadagnati possano mantenere gli altri bambini che devono essere tolti assolutamente dalle discariche. Le scuole che abbiamo fatto nel Madagascar, i parchi gioco nel Kosovo, dopo la guerra. Tutte cose che abbiamo fatto con queste associazioni, prese, portate per mano, documentate e sentirci in qualche maniera parte di un progetto più grande del fatto di fare musica. Ecco, questo forse è un fatto di Fede.

Hai un sogno nel cassetto?

Come no, ne ho tantissimi. Sto aspettando di diventare grande (risata), perché adesso sono ancora a livello ragazzino, scanzonato, per cui, piano piano da grande vediamo cosa farò.  

A chi vorresti dire “Grazie”?

A un sacco di gente, caro Gianfranco. Tante grazie, prima di tutto, alla mia famiglia che, all’inizio, non è che mi ha aiutato tanto sotto il punto di vista professionale , anzi, loro non vedevano di buon occhio che io suonassi il tamburo. Mio padre continuava a chiedermi cosa avrei fatto nella vita. Anche per questo devo ringraziarli, cioè per il fatto di non aver mai mitizzato il mio mestiere e devo ringraziare le persone che mi hanno fatto sentire con i piedi per terra e non volare come  un palloncino. Tutto quello che mi è successo è una cosa estremamente normale e non mi sono mai sentito un divo. Ringrazio  tutti quelli che in qualche modo hanno contribuito a farci spingere il carrello al supermercato, senza recitare il ruolo di quello famoso. Poi non è neanche vero che siamo gli stessi di sempre. Con il lavoro che fai la popolarità aumenta e ti fa fare delle scelte che tutto sommato sono comode. Però da qui a montarsi la testa, come dicono i rotocalchi, ce ne passa. Sul punto di vista professionale devo ringraziare tanto la buona stella. Io all’inizio, come ti dicevo prima, suonavo nelle cantine romane e facevo da spalla ai Pooh. Era il ‘69-’70. Avevamo simpatizzato. Quando Valerio (ex Pooh) decise nel ’71 di lasciare il gruppo, gli altri pensarono a me. Io avevo un gruppo, allora, che si stava per sciogliere perché tre dei componenti andavano a fare il militare e allora entrai nei mitici Pooh e affrontai questa nuova avventura. Forse se non fossero successi  tutti questi imprevisti, questi fatti e se il manager dei Pooh, Pintucci Mei non mi avesse chiamato, chissà cosa farei adesso.  E partì per quest’esperienza con delle persone che non conoscevo bene e che errano diverse da me, nel senso che uno era bolognese, l’altro bergamasco, ecc…Per cui quattro maniere diverse di vedere la vita, di parlare, di sognare. Poi alla fine, dopo tanti anni, siamo diventati tutt’uno. Adesso sono passati 33 anni e siamo sempre tutt’uno.

Ciao e grazie di tutto, Stefano. Ci sentiamo.

Come no. Fra quelli a cui devo dire “Grazie” ci sei anche tu, caro Gianfranco, per questa bella intervista e per il tuo amore che dimostri per la mia città. Fatti sentire. Ciao.