Mario Battocletti (medico chirurgo)        Mezzolombardo (Trento) 15.3.2016

                                Intervista di Gianfranco Gramola

La storia di Mario Battocletti, un chirurgo dotato di una profonda sensibilità umana che per un periodo all’anno “vola” in Africa per fare volontariato, portando con sé, oltre alla professionalità, un gran desiderio di aiutare il prossimo, ricevendo in cambio un sorriso, quel sorriso che come una magia, fa tanto bene al cuore. Una testimonianza di lacrime e dolore ma anche di momenti emozionanti che ha l’umile pretesa di toccare l’anima e di essere un esempio.

Per contattare il noto chirurgo, la sua e.mail è mario@occhiperlafrica.org

Mario Battocletti è un medico di Mezzolombardo, specializzato in chirurgia generale. Sposato con  Miriam Paternoster, insegnante, ha tre figli: Paolo, Laura e Davide. Attualmente lavora presso l’ospedale di Cles.

Intervista

Quando hai capito che fare il dottore sarebbe stata la tua professione?

Da piccolo avevo questa passione: ho ancora qualche disegno delle elementari in cui porto la mascherina. Mi era rimasto impresso il fatto che mio papà Renzo avrebbe voluto fare il medico, però non lo fece per questioni economiche. Il suo sogno l’ho fatto un po’ mio.

Chi sono stati i tuoi maestri?

Molti miei maestri sono stati dei chirurghi del sud, sia a Padova che a Verona. Soprattutto siciliani e calabresi, persone preparatissime e molto intelligenti. Il dr. Tirone, appunto calabrese, che al Santa Chiara di Trento è molto conosciuto. Ci sono però anche i trentini doc come il Prof. Eccher, il Dr. Rigamonti e il Dr. Bruno Zani. 

Le doti di un buon chirurgo?

Razionalità, pazienza,  freddezza, cuore gentile ed uno spirito allegro. Sopratutto come diceva Paracelso non agire senza giudizio e non mostrare di conoscere ciò di cui non si ha esperienza. Poi l’importanza di conoscere i propri limiti su certe cose è fondamentale.

Come ricordi la gavetta?

La gavetta è stata abbastanza difficoltosa perché pensavo di essere arrivato invece stavo solo iniziando. Anche perché io sono arrivato su un cambio epocale della chirurgia, ossia si passava dalla chirurgia tradizionale  alla chirurgia tecnologica laparoscopica con le telecamere e senza fare tagli, quindi stavo seguendo questa evoluzione e questo mi affascinava parecchio. 

Che tipo di operazioni fai?

Soprattutto del tipo addominale, quelle con la telecamera. Quindi dal fegato allo stomaco, dall’intestino alle ernie, ecc… Adesso siamo tutti molto settoriali negli interventi e uno si specializza su determinate cose.  

Com’è nato il “mal d’Africa”? 

Il “mal d’Africa” è nato con un viaggio del 1987, quando ho incontrato Baba Camillo di Romeno. A quei tempi mio papà aveva una ferramente e metteva da parte del materiale per mandare in Africa nei container. Baba Camillo è sempre stato un sacerdote lavoratore e curava le officine e la falegnameria ed era anche un gran contadino. Quando c’era da fare non si tirava mai indietro. Un giorno è arrivato in negozio e l’ho conosciuto. Avevo appena letto il suo libro, così sono rimasto affascinato da questa figura così energica e solare. Ricordo che ha chiesto a mio padre se voleva andare in Africa a trovarlo, ma mio padre aveva paura degli aerei, così mi sono fatto avanti io che facevo il commesso nella ferramenta di famiglia. Nel giro di dieci giorni ho fatto il biglietto e due mesi dopo sono partito e sono stato via per due mesi. Avevo 19 anni e mi ero appena iscritto a Medicina. E’ stato folgorante perché oltre a stare lì parecchio, ho visto i primi ospedali di “Medici con l’Africa CUAMM” (la prima organizzazione italiana no profit che si interessa alla promozione e  tutela della salute delle popolazioni africane, ndr). Casualmente un giorno siamo arrivati a Tosamaganga (Tanzania) e ho visto questi medici che lavoravano lì. Uno di loro mi ha fatto vedere l’ospedale. Io non ero avvezzo neppure alla nostra  medicina perché erano i primi anni che studiavo,  ma nel vedere quelle situazioni, quegli ospedali,  rimasi  colpito  positivamente, anche dal lavoro di questi ragazzi. Eravamo proprio dove, combinazione, 20 anni dopo sarei andato a lavorare. Mi ricordo che questo medico mi ha detto: “Se vuoi venire a operare qui non fare come noi. Laureati, specializzati, impara il lavoro e poi vieni”. Mi diceva così perché a quei tempi c’era un po’ di disoccupazione in Italia e mandavano via molti medici laureati. Quando poi ho conosciuto mia moglie  l’ho coinvolta  in questa mia passione e nel 2003 siamo partiti per l’Uganda.

Quali sono state le difficoltà iniziali?

La prima difficoltà è stata quella di decidere di partire, poi il CUAMM  ha preparato molto bene la mia partenza, mi ha aiutato molto, accelerandola perché eravamo pochi  a partire . Secondo me non è stata neanche tanto difficile la prima fase perché eravamo entusiasti del lavoro e aspettavamo da anni questa partenza. Però sicuramente la mole di lavoro, una goccia in un oceano, in una situazione così grande, ti da ad un certo punto l’idea del fallimento. Perché vedi talmente tante cose che potresti fare, ma ne  puoi fare solo poche e  questo ti deprime un po’. Poi c’è l’isolamento dai tuoi familiari e dagli amici. Il primo anno non abbiamo visto o sentito quasi nessuno ed è stato abbastanza duro. Però io avevo la famiglia con me e quello mi ha dato più energia. Chiaramente l’impatto di certe situazioni è stato molto forte: non avevo mai visto morire un bambino. Quando cominci a visitare e in un’ora ne vedi morire otto, ti senti malissimo.

So che la nostra borgata, Mezzolombardo, ha fatto una colletta per sostenere il tuo operato.

La gente di Mezzolombardo secondo me, oltre ad essere generosa economicamente, è stata generosa dal punto di vista del sostegno, perché ho ricevuto lettere, e-mail  e il sostegno di tantissima gente. Il mezzo economico chiaramente aiuta perché con quei soldi si possono comprare i vaccini o attrezzature per l’ospedale, però il sostegno morale è necessario perché ti da energia e ti carica. Ci hanno fatto molto piacere le persone che sono venute in Africa a trovarci, e con le quali abbiamo attuato altri progetti. Quello che mi ha stupito è la generosità e il sostegno di molte persone anonime, sconosciute, persone che non mi sarei mai aspettato.    

Hai mai pensato di coinvolgere qualche tuo collega trentino?

Si! Ho coinvolto alcuni colleghi dell’ospedale di Cles. Ho portato giù con me in Africa il Dr. Meggio e il Dr. Moggio, primario di Cavalese (sono cugini) e si stanno aggiungendo altri medici. Quando possono vanno in Africa anche senza di me. Io credo che l’Africa sia il sogno di qualsiasi operatore sanitario, solo che non è facile realizzarlo. Ma probabilmente è il sogno di tante persone, però uno che ha un’attività commerciale  non è che può spostarla di lì. Noi non possiamo traslocare le nostre vite così facilmente.   

Hai coinvolto anche la tua famiglia e insieme siete partiti per la Tanzania. Quali erano le loro mansioni?

Siamo andati prima in Uganda poi in Etiopia e quindi, in Tanzania. Il ruolo di mia moglie inizialmente era quello di tenere i bambini perché erano molto piccoli e soprattutto in Etiopia, dove eravamo in una zona completamente isolata, dovevamo vedercela con un sacco di malattie endemiche e bisognava tenerli sotto controllo. Pian piano abbiamo cominciato a conoscere l’ambiente e a vedere che non era poi fondato tutto quell' allarmismo; uno dei problemi più grossi delle malattie dei bambini era soprattutto dovuto alla denutrizione. I nostri stavano bene e non si sono mai ammalati. Quindi il compito di mia moglie era quello di tenere la famiglia sotto controllo, di tenere la casa, di filtrare l’acqua, di preparare i cibi con quello che c’era, di dare una mano alla ragazza che viveva in quella casa. Poi lei si è ambientata e mi dava una mano con i malnutriti, con gli allattamenti ed inoltre dava una mano sul sociale. Molte volte questi malati uscivano dall’ospedale e non sapevano dove andare, avevamo anche gli orfani da gestire e un sacco di altre cose. Lei si occupava anche di organizzazione e di smistare le varie situazioni. Ne è rimasta coinvolta, tant’è che in Tanzania ha aperto  un’attività  producendo  tessuti “Batik” , che sono delle stoffe dipinte con la cera liquida e lei faceva dei lavori favolosi.  

I tuoi figli come ricordano questa esperienza e soprattutto cosa hanno imparato?

I primi due figli che erano più grandicelli, hanno visto determinate situazioni che porteranno nella loro testa per tutta la vita. Abbiamo un sacco di materiale fotografico con cui loro si ricordano tanti momenti, tanti fatti e credo che la cosa più importante che hanno vissuto è quella della casa sempre aperta a tutti e il fatto che c’era una fratellanza enorme e quando c’era bisogno di qualcosa, tutti si davano una mano.  

L’episodio più gratificante?  Quello che ti ha emozionato e fatto scendere una lacrima?

Sono tantissimi. Una volta avevo un bambino con un tumore a un rene. Io non avevo mai operato un rene. Ho mandato questo bambino all’ospedale centrale di Dar es Salaam e quando hanno visto questo bambino, probabilmente in un reparto che non funzionava e dove non c’erano i medici, me l’hanno rimandato indietro e me lo sono ritrovato davanti. Secondo me era operabile per le indagini che avevamo fatto, solo che forse loro non se la sentivano. Abbiamo preso il coraggio a due mani, con gli anestesisti ci siamo preparati, io mi ero rivisto l’intervento, avevo parlato via skype anche con un medico che faceva questi interventi e mi ha detto: “Vai tranquillo, vedrai che lo farai bene”. Il giorno dopo ero il primo in sala e in tre quarti d’ora gli ho asportato il rene, l’intervento è riuscito perfettamente, il bambino dopo pochi giorni stava bene. Poco tempo dopo uscendo dal mio giro del reparto con gli infermieri, ho trovato una donna in ginocchio davanti a me. Ho pensato vorrà soldi, vorrà qualcosa, e aveva questa padella con il cibo in mano. L’infermiera mi ha dato una mano a tradurre e mi ha detto: “E’ la mamma di quel bambino che hai salvato dal tumore, lei non sa come ringraziarti, lei non ha niente ma ti dice che se avesse qualcosa te lo darebbe”.

Com’era la tua giornata “tipo”?

Si partiva sempre con la sala operatoria la mattina presto che solitamente durava fino alle cinque o sei del pomeriggio e quando potevo tra un intervento e l’altro uscivo e facevo il giro visita. Poi c’erano giorni in cui facevo solo ambulatorio con centinaia di pazienti da vedere. Due giorni dovevo dedicarli a quello e poi c’erano parecchi pomeriggi di training per gli infermieri, per i medici più giovani. Quindi bisognava spendere un sacco di tempo a insegnare a fare i gessi, a fare lezioni anche teoriche, quindi chiaramente il training era molto importante. A Dubbo, in Etiopia avevo il problema che dovevo dirigere l’ospedale e quindi  avevo anche i meeting con tutte le personalità locali che non mi lasciavano lavorare, però era molto importante tenere questi  rapporti interpersonali, anche perché chiaramente un bianco non è visto molto bene quando mette il naso nel loro sistema; devi aiutare, ma devi sempre aiutare stando dietro le quinte, consigliare,  ecc … La mediazione l’ho imparata lì.                

Si dice “cinicamente” che i chirurghi che operano gratis nel terzo mondo ci vanno per farsi la mano. Non è il tuo caso data la tua esperienza, ma in generale è così?

Non posso negare di aver fatto molta esperienza laggiù. Ci vuole  coscienza. Il problema è che in certe situazioni non c’è alternativa, perché non si può mandare il paziente da un’altra parte. Molte volte hai  paura di quello che ti può succedere perché nessuno ti può aiutare, ma d'altronde nessuno può aiutare quel malato se non tu … Qui in Italia facevo trecento interventi l’anno,  mentre lì facevo trecento interventi in tre mesi. Secondo me la cosa più importante è la coscienza di sapere quello che non devi fare, perché ci sono dei limiti oltre i quali non puoi avventurarti,  perché comunque non ce la fai, ed è difficile a volte perché non hai la Tac perché non hai l’ecografia e non hai nulla che ti aiuti a capire. Quindi a volte ti trovi lì con 20 persone che ti guardano e tu devi decidere e non è semplice.  

Cosa ti manca dell’Africa?

Tutto, infatti vi torno spesso. Mi manca innanzitutto il sorriso della gente con cui lavoravo, perché era sempre gente contenta di vedermi, gente disponibile. Sicuramente c’erano molte difficoltà ma c’erano anche tantissime cose che ti davano una gratificazione enorme. Mi manca anche il clima che è una cosa favolosa e quell’atmosfera, il contatto con la gente, si sta sempre all’aperto, sempre in giro. Io mi sono trovato molto ma molto bene in mezzo agli africani. Paradossalmente anche se uno può pensare che sia difficile, ho trovato persone più scontrose in Europa e più affabili lì, anche perché impari.

Le tue radici trentine quanto hanno contato nel tuo operato?

Soprattutto per la nostra sana forza di volontà che ci aiuta a superare i momenti difficili.  

Hai qualche progetto che vorresti realizzare in futuro?

Si, sicuramente mi piacerebbe poter avere la possibilità di ritornare a gestire qualche ospedale in Africa. Mi piacerebbe tornare lì con qualche collega di qua. Magari quando andiamo in pensione, in gruppo, in equipe a lavorare là.

Quando ritorni in Africa?

Penso di tornarci in settembre.

Hai mai pensato di coinvolgere lo sport per raccogliere di fondi?

Per queste cose abbiamo una gestione centrale a Padova. Più che altro facciamo eventi culturali, balli, cene e lo sport non è mai venuto fuori. Abbiamo tutto un organico che si occupa di questo, io non sono molto competente però coinvolgere lo sport potrebbe essere un’idea, Gianfranco.

Certo. Perché lo sport ha molto a che fare con la solidarietà. E’ una delle poche  attività umane che liberano l’uomo dalle sue schiavitù sociali. E poi aiutare le persone sfortunate fa vincere la medaglia più bella. Quella per un gesto d’amore.

Per donazioni:  Medici con L'Africa - CUAMM Trentino IBAN IT35J0817835220000000049780