Angela Demattè (attrice - scrittrice -
cantante) Milano
9.9.2009
Intervista di Gianfranco Gramola
Un’artista trentina che ama le sue radici e
che non vive di sogni, ma di concretezze.
Angela è nata a Trento il 23 aprile 1980, ma
vive tra Vigolo Vattaro (Tn), Milano e Roma. Ha preso il Diploma scientifico
nell’anno 1999, c/o liceo scientifico Galileo Galilei di Trento, una Laurea in
lettere moderne, nell’indirizzo di Storia e critica delle arti nel maggio
2004, c/o Università Statale di Milano con una tesi di laurea sulla vita
dell’attrice Lucilla Morlacchi e il Diploma all’Accademia dei Filodrammatici
di Milano nel settembre 2005.
Teatro
(2000)
“Fiabe da lupo” di Giampiero Pizzol, regia di Bano Ferrari, musiche di Carlo
Pastori. (2001) “La battaglia di
Roncisvalle”, regia di Mimmo Cuticchio. (2002) “Sofia e il gigante”,
spettacolo d’attore e d’animazione, regia di Andrea Carabelli. (2005)
“Cuore di cane, il musical” regia di Bruno Fornasari, musiche di Roberto
Negri, prodotto da “L’Artistica” - “Esperimento con pompa pneumatica”
di Shelagh Stephenson, regia di Peter Clough
- “La cameriera brillante” di Carlo Goldoni, regia di Riccardo
Pradella. (2006) “Gian burrasca, il musical” regia di Bruno Fornasari,
musiche di Nino Rota - “Troiane”
di Euripide, regia di Mario Gas con Lucilla
Morlacchi, prodotto dall’INDA nel ruolo di Andromaca - “Fedra” di
Racine, regia di Walter Pagliaro, con Micaela Esdra. (2007) “La
Bottega dell’Orefice” di K.Wojtyla, regia di Andrea Chiodi - “La festa”
di Spiro Scimone, regia di Bruno Fornasari, presentato all’ENSATT di Lione - “Mela”
di Dacia Maraini, regia di Andrea Chiodi - “Fame”, regia di Bruno Fornasari.
(2008) “Orestiade” di Pier Paolo Pasolini, regia di Pietro Carriglio,
prodotto dall’INDA - “Sacra rappresentazione del venerdì santo”, regia di
Carlo Mazzacurati - “Frecce dell’angelo dell’oblio” di J.S. Sinisterra,
mise-en-espace diretta da Tiziana Bergamaschi. (2009) “ Sogno di una notte di
mezza estate” di Shakespeare, regia di Andrea Chiodi - “Etty Hillesum,
cercando un tetto a Dio” monologo, scritto da Marina Corradi, regia di Andrea
Chiodi - “Dialoghi su Paolo VI”, regia di Antonio Zanoletti.
Televisione
Trasmissione
“Tournée” su “Cuore di cane, il musical” (Leonardo Sky).
Cinema
2009
“L’ultimo giorno d’inverno”, regia di Sergio Fabio Ferrari, con Ivana
Monti e
“Et
mondana ordinare”, regia di Daniela Persico, per QuartoFilm
Formazione artistica
Approfondisce
il canto lirico con la soprano Alessandra Molinari; Workshop per attori e
musicisti con Christian Burgess e Danny McGrath presso San Miniato; Corso di
alta formazione sulla drammaturgia contemporanea spagnola e tedesca, diretto da
Tiziana Bergamaschi; workshop “Il teatro del corpo” diretto da Marcello
Magni (in Italia per “Fragments” di P. Brook);
Partecipa a OLIVE 2007, lavorando con attori di 13 scuole internazionali
su “La locandiera” di Goldoni; studio su “La dodicesima notte” di
William Shakespeare, diretto da Nicolaj Karpov; studio su “Le tre sorelle” e
“La fidanzata” di Checov, diretto da Karina Arutyunyan; corso di doppiaggio
presso da ADC GROUP di Milano tenuto da Bruno Slaviero e Laura Rizzoli;
laboratorio di ricerca espressiva tenuto da Silvio Castiglioni presso il CRT di
Milano; corso di danza contemporanea presso il C.I.M.D. di Milano tenuto da
Franca Ferrari; seminari di clownerie con
Pierre Byland, Bano Ferrari e Carlo Rossi; approfondimento di tecniche di
espressione sotto la guida di Lucilla Morlacchi.
Ha detto
- Spero di non scrivere mai una cosa che
sentirò inutile.
- Non ho mai pensato di fare la drammaturga.
Chissà! Forse è una strada da percorrere.
- Ho scelto di fare teatro, perché mi
appassiona esplorare l’umano.
- Ho
fondato una mia compagnia teatrale, la “Cantiere Centrale” e con i miei
compagni possiamo scegliere i testi che ci piacciono.
Curiosità
- Spero di non scrivere mai una cosa che
sentirò inutile.
- E’
la vincitrice del primo premio del concorso “Primi attori a Noriglio” nel
novembre 1998 con la presentazione di due monologhi tratti da “Due chiacchiere
al parco” di Ayckbourn. Finalista come miglior attrice al premio “Salvo
Randone” nel giugno 2006 al Teatro Greco di Siracusa, per il ruolo di
Andromaca e nel 2009 vince il 50esimo Premio Riccione con il suo primo testo
“Avevo un bel pallone rosso”.
- Il
4 ottobre del 2009 al Teatro Olimpico ha ritirato il premio Golden Graal come
miglior giovane attrice di teatro.
- Oltre
al dialetto trentino e veneto, parla correttamente l’inglese e lo spagnolo.
Intervista
Che ricordi hai della tua infanzia in quel
di Vigolo Vattaro?
Moltissimi. Come sempre quelli dell'infanzia sono i ricordi più belli e
intensi. Potrei dilungarmi. Ma la sensazione che ricordo di più è quella di un
luogo estremamente familiare. Avevo l'impressione di poter uscire di casa in
pantofole. La casa della mia famiglia è sotto la piazza di Vigolo Vattaro, e la
mattina d'estate io e mia sorella gemella andavamo a fare la spesa. Ancora prima
di saper contare. La fiducia tra le persone era tanta che mia madre mi diceva di
dare il portafoglio alla cassiera della Famiglia Cooperativa per prendere i
soldi direttamente. Ci si conosceva tutti. Nel bene e nel male. E poi potevamo
giocare nel piazzale delle scuole fino alle nove di sera. Milano mi piace molto
ma ogni tanto penso che quando avrò dei figli non potrò restituire loro la
libertà che avevo io da piccola... Eppure la città, ora, mi piace tanto.
Sei orgogliosa delle tue radici?
Moltissimo. I trentini sanno lavorare tanto e non sprecano le parole. E sempre
di più mi accorgo che un atteggiamento diverso mi annoia. A volte il lavoro
diventa il senso della vita e questo non mi piace. Succede a mio padre e spesso
succede anche a me. Devo stare in guardia. C'è qualcosa di "luterano"
in questo e il luteranesimo non mi piace. Ma anche questo mi piacerebbe capire
da cosa deriva... I nostri nonni passavano le sere d'inverno a conversare e
stare insieme tranquillamente... Quindi non si può dire che non avessero dei
momenti di pausa... Sono domande che mi faccio e a cui pian piano rispondo.
A Vigolo Vattaro c’è la tua famiglia. Com’è composta? Che lavoro fanno?
Risposta lunga. I miei genitori si chiamano Agnese e Saverio. Mio padre fa il
fabbro e in paese lo chiamano Saverio Colombo. Perciò io sono "la fiola
del Colombo" insieme ai miei sei fratelli. Mia madre fa la casalinga. Ha un
ottimo pollice verde e un talento nel trovare i funghi. Io sono l'ultima di
sette fratelli. Insieme ad una sorella gemella che si chiama Rosanna, abita ad
Innsbruck, sa un sacco di lingue e fa un sacco di lavori legati all'arte (dirige
un museo, fa la guida, fa anche un po' di teatro...).
Il mio fratello maggiore si chiama Gianluca, ha dodici anni più di me ed è
ingegnere. La seconda, Laura, ne ha undici più di me, abita vicino a Novara e
si è laureata in psicologia infantile. Entrambi ci hanno fatto da secondi
genitori (secondo il buon vecchio uso paesano dove i fratelli più grandi si
occupavano dei piccoli). Dopo di loro (nel 1970) nacquero due gemelli maschi,
Marco e Paolo, con gran sorpresa di tutti perché, non essendoci le ecografie,
nessuno se lo aspettava. Loro abitano vicino casa e lavorano con mio padre. Nel
1975 nacque Francesca, anche lei abita a Vigolo e lavora (con mia grande stima)
all'Anffas. I nipoti sono arrivati a quota nove e ne ho costantemente nostalgia.
Ma i tuoi genitori che futuro sognavano per te?
Non lo so. Sono stata una bambina patologicamente timida e problematica. Non
dicevo mai niente. Questo si notava ancora di più perché mia sorella gemella
era estremamente socievole e buffa. Nelle foto ho sempre una faccia seria mentre
lei ride costantemente. Dovevo essere piuttosto noiosa. Perciò mai si sarebbero
aspettati il teatro. Anche se questa passione non l'ho mai nascosta. Nacque in
un momento preciso, all'età di sette anni, e non andò più via.
Quali sono i valori che i tuoi genitori ti hanno trasmesso?
Domanda complessa. O forse no. Innanzitutto la tradizione cattolica. Mi hanno
gettato questo seme che poi ho combattuto, contestato ma che poi, attraverso
altri incontri, ha dato piante forti e rigogliose. Poi quello che ho detto
prima: la capacità di lavorare, di fare dei sacrifici per ottenere qualcosa. E
poi mi hanno lasciato la libertà di scegliere ciò che mi interessava. Ho
frequentato il conservatorio per tre anni ma è stata una mia scelta libera.
Trovo agghiacciante che i genitori spingano i figli a fare qualcosa. Soprattutto
in campo "artistico". Perché la vita di chi fa "arte" è
dura, spesso male retribuita e, perciò, deve nascere da una passione oggettiva,
profonda. Qualcosa di cui non si può fare a meno. Perciò credo che bisogna
essere liberi di trovare la propria strada, incontrare gli ostacoli. Attraverso
gli ostacoli si mette alla prova la passione. La questione del talento è
un'altra cosa. Credo che un tempo i figli (paradossalmente) fossero lasciati più
liberi. Certamente non ero una "teppista" perciò non avevo bisogno di
grandi rimproveri. Ma, forse perché eravamo tanti fratelli, non c'era un
eccessivo controllo nella gestione delle mie giornate. C'erano degli adulti di
riferimento che scandivano il mio tempo (la maestra, il maestro del coro, la
catechista...) e poi c'era il tempo libero. L'educazione era comunitaria. C'era
una continuità tra la famiglia e il resto.
Ora vivi tra Milano e Roma. Ti manca un pochino il tuo Trentino?
Mi manca la valle sotto casa dove vado a fare jogging. E le montagne innevate
d'inverno. Quando sono lì ogni tanto, all'alba, mio fratello (che è
cacciatore) mi invita con lui a vedere i caprioli o i cervi. Sono cose che
apprezzo di più, ora. Come i paesaggi. Quando ci abitavo li davo per scontati.
Ora mi commuovo. Poi mi mancano i miei nipoti e anche la mia famiglia,
s'intende... Però, ripeto, la città mi piace infinitamente. Vedere tante
umanità diverse mi piace molto di più che vedere un bel paesaggio...
nonostante tutto. E poi non abito mica in America! Quando voglio faccio un salto
a Vigolo!
Quando sei in regione, hai un angolo in cui ami rifugiarti?
I prati sopra casa mia.
Hai vinto il Premio Riccione per il testo teatrale “Avevo un bel pallone
rosso”, che parla della fondatrice delle Br. Cosa ti affascina di questa donna
trentina e perché un testo su di lei?
Mi hanno affascinato molte cose: la sua
forza, il suo coraggio, la sua scelta estrema... Ma, soprattutto, il testo parte
da una domanda: come mai una donna, di forte tradizione cattolica, arriva a
fondare le Brigate Rosse? Poi c'è il rapporto con il padre. Questo rapporto è
ciò che dà la "carne" al testo. Ma non vorrei dire di più. Vorrei
che ognuno "passasse" attraverso lo spettacolo per dirmi cosa volevo
dire...
Il titolo è curioso. Come ti è venuto in
mente?
Avevo un bel pallone rosso è l'inizio di una
filastrocca che Margherita aveva trascritto su un foglio per regalarla a suo
padre e che fa così: "Avevo un bel pallone rosso e blu che era la gioia e
la delizia mia, si è rotto il filo ed è scappato via. In alto in alto, su
sempre più su. Son fortunati in cielo i bimbi buoni: volan tutti lassù quei
bei palloni". Questa filastrocca suggerisce come un'aspirazione di
Margherita... il richiamo ad un "bene"... ad un altro mondo... come
una parte del suo animo di bambina che già aspirava a qualcosa di assoluto, di
"bello" per tutti...
Cosa ti ha colpito di più nella storia di
Mara Cagol?
Difficile dirlo, perché la storia vera (di
cui non ho falsificato nulla), per me, si mescola con quel rapporto padre-figlia
che fa parte del lavoro teatrale e che, per forza, non può corrispondere alla
realtà. Mara è per forza un'altra Mara, con un carattere e delle idee
certamente aderenti alla vera Mara Cagol, ma non può corrispondere totalmente
con quella vera. A maggior ragione il padre, che non ho scelto di chiamare Carlo
Cagol, ma "Padre". Il mio "padre" ha origini più contadine
del signor Cagol. Rappresenta quel che c'era prima del '68. Rappresenta, dal
punto di vista ontologico, qualcosa di strutturalmente diverso. Ma se dovessi
dire le cose che mi hanno colpito di più, senza pensarci troppo direi: il
coraggio di Margherita, che ha liberato suo marito dal carcere; la convinzione
"razionale" che il mondo potesse davvero cambiare; il fatto che suo
padre sia morto un mese dopo di lei.
Una storia vera, aiuta nella stesura di un
testo?
Moltissimo. Soprattutto una storia come
questa. Mi riesce più facile "creare" se ho dei binari. La storia
offre, per forza, questi binari. Poi il treno che ci scorre sopra può essere
veloce o lento, grigio o colorato...
Nel tuo racconto, vuoi lanciare qualche
messaggio?
Mi piacerebbe rispondere, ma mi sforzo a
lasciare liberi gli spettatori. Se no avrei scritto un saggio e non un testo
teatrale.
Ti piacerebbe dare un seguito a questo
testo?
Non in maniera esplicita ma, senz'altro, gli
stimoli che mi hanno spinto a scrivere questo testo non sono ancora esauriti.
Un motivo per cui uno dovrebbe leggere il
tuo racconto?
Non è un racconto è un testo teatrale e,
perciò, trova la sua collocazione in teatro. E' scritto per essere messo in
atto, in azione. Non saprei scrivere diversamente. In ogni modo: credo che il
motivo per vedere o leggere questa "opera" sia perché pone in dialogo
due posizione umane, perché cerca di sviscerare il dramma di un periodo, da cui
parte la nostra cultura, la nostra visione del mondo. Ci troviamo addosso una
visione delle cose, del mondo e di noi stessi che deriva da un momento storico
preciso. Conoscere quel periodo ci aiuta a capire meglio noi stessi, a non
commettere certi errori... Insomma, questo è un aspetto che mi appassiona e ho
cercato di condividere questa passione umana con tutti. Poi c'è un rapporto
timido e commovente tra un padre ed una figlia.
E poi una frattura di questo rapporto. Intesa anche in termini più
"universali" e culturali. Ecco. Questo è uno degli stimoli che non
sono ancora esauriti.
Per uno che scrive, quando arriva
l’ispirazione?
Credo sia una grazia divina... A parte gli
scherzi... degli stimoli nel quotidiano che si mettono insieme e, ad un certo
punto, hanno la necessità di essere detti... insomma, una grazia divina. Poi c'è
il lavoro di "artigianato", l'uso della tecnica drammaturgica sul
testo. Ma questo viene poi.
Per questo testo hai vinto il Riccione? A
chi l’hai dedicato?
L'ho dedicato a mio padre e a mio suocero,
che è morto qualche mese fa. Dalla sua umanità e da come ha affrontato la
morte, affidandosi a Dio e lasciandosi accompagnare dagli amici, ho capito tante
cose sulla paternità. E nel mio testo quello del padre è il personaggio che mi
commuove di più.
Com’è nata la passione per lo
spettacolo? Ricordi il tuo debutto?
E' nata a sette anni. Il parroco del mio
paese chiamava ogni anno dei gruppi professionisti di teatro ragazzi per delle
rappresentazioni nel mio paese. Mi sono innamorata del teatro in un momento
preciso. Quando un clown, con in mano un attaccapanni, scese tra il pubblico a
farlo annusare. Ora non ricordo la gag. Ma ricordo benissimo quell'istante. Come
una magia. Un colpo di fulmine. Da quel momento non volevo far altro che
rivivere quella magia. La prima volta che sono salita sul palco avevo, credo,
nove anni e facevo il banditore in Cenerentola. Sono entrata in scena e non mi
ricordavo più niente. Mi sono voltata verso la mia amica in quinta per
implorare aiuto ma lei stava scopando per terra. Credo facesse un esercizio
stanislavskiano (era Cenerentola). Ora mi fa morir dal ridere la situazione ma
allora ero terrorizzata. Non mi sono neanche arrabbiata con lei (che mi poteva
pur aiutare!), mi sentivo solo terrorizzata. Poi mi è venuta in mente la
battuta. Non doveva essere una raffinatezza cechoviana. Quella scenetta ce
l'eravamo costruita noi. Avevamo chiesto il teatro e fatto scene e costumi. Da
soli. Dopo quella volta mi misi a scrivere delle commediole. Anche queste credo
non fossero delle raffinatezze cechoviane. In ogni modo cercavo sempre una
situazione in cui rappresentarle. Poi alle medie ho frequentato il conservatorio
nella classe di pianoforte della professoressa Mascagni. Ma la fissazione del
teatro era costante. Mollai il pianoforte. Alle superiori facevo parte della
filodrammatica di Vigolo Vattaro, avevo un gruppo di teatro-danza al Liceo
Scientifico Galilei e poi mi scrivevo dei monologhi che ovviamente non
rappresentavo. E poi sognavo di fare l'attrice. Ma lo dicevo raramente e me ne
vergognavo. Come quando ti innamori ed hai paura che l'interessato ti dica di
no.
Allora ti metti al lavoro per essere bella e brava per lui. Pian piano ti fai
coraggio e glielo dici. Magari ti va bene. Ma deve essere il momento giusto e la
persona giusta. Bisogna avere pazienza.
Quali sono stati i tuoi maestri?
Molti. Tra noi "teatrani" giovani
si parla tanto di metodi. Ma alla fine, comincio a pensare che bisogna
tornare ai maestri. Il dramma è che bisogna trovarli. I metodi si trovano sui
libri. I maestri bisogna incontrarli o andarli a cercare. La prima che voglio
citare è Lucilla Morlacchi. Ho scritto la mia tesi di laurea su di lei e da lì
è nata una intensa frequentazione. Con lei ho preparato dei monologhi da
portare ai provini, l'ho seguita durante le prove, ho avuto anche la fortuna di
recitare con lei. Poi il nostro rapporto si è un po' interrotto. Purtroppo. Poi
tutti i maestri dell' Accademia: Teresita Fabris, che mi ha tirato fuori la voce
e mi ha insegnato a recitare il verso; Bruno Fornasari, che mi ha dato un solido
metodo per affrontare il testo ed essere sempre "vera" in scena;
Liliana Oliveri per il canto; Massimiliano Cividati per il movimento scenico;
Karina Aryutyunian e Nicolaj Karpov per il solido metodo russo; Peter Clough,
del quale adoro l'umanità e la capacità di dirigere gli attori. E poi gli
attori e i registi con cui ho avuto la fortuna di lavorare: Alberto Mancioppi,
Maurizio Donadoni, Galatea Ranzi, Micaela Esdra e Walter Pagliaro, Mimmo
Cuticchio...
La cultura è importante per arrivare ?
Sì. Non l'intellettualismo. La cultura.
Hai avuto momenti difficili nella
carriera, in cui volevi mollare tutto?
Sì. Non molti. Ad un certo punto ho detto: o
la va o la spacca. Ho fatto i provini all'Accademia e per fortuna mi hanno
preso. Credo che le cose si snodano quando si dice: o la va o la spacca. Cioè
quando si rischia. Nella vita e nel teatro. Poi ci si dice sempre che ormai il
talento non conta, che lavorare sodo non conta, che servono le
raccomandazioni... e questo non è che non sia vero. Soprattutto in Italia. Però
ogni tanto, quando una cosa è veramente necessaria, "fuoriesce" da
questo circuito malato. Il Premio Riccione, per me, è stata una dimostrazione
di ciò.
Cosa hai sacrificato per arrivare al
successo ?
Ma mica sono arrivata al successo! Bastasse
questo! E poi cosa vuol dire successo? Notorietà? Quella non è mai stata la
mia priorità. Poi se arriva non mi dispiace ma con il teatro è abbastanza
difficile. Quello che si vuole è che gli altri "applaudano" ad una
intuizione, ad un'espressione artistica che si sente in modo forte... Ma prima
bisogna trovarla e comunicarla. E questo non è così facile. Mi sembra però di
intuire una mia strada... so che cosa voglio dire attraverso il teatro. Non in
termini specifici ma come posizione umana. E questo credo porterà dei frutti.
Spero di non essermela "gufata".
Quali sono i tuoi hobby, i tuoi passatempi
preferiti , quando non lavori?
Non ho mai capito cosa volesse dire hobby.
Per me ogni cosa fa parte del mio lavoro. Sono trentina e un po' luterana...
Il complimento più bello che hai ricevuto
?
Come attrice: quando qualcuno mi dice che
l'ho fatto ridere o commuovere. Come autrice: la stessa cosa.
Che rapporto hai con la Fede?
Appartengo alla Santa Chiesa Cattolica e ne
sono fiera. Ultimamente comincio a capire la frase di sant'Agostino "ama e
fa ciò che vuoi". Ciò mi aiuta ad andare al di là della famosa tendenza
educativa trentina verso il luteranesimo...
E il tuo rapporto con il denaro?
Strampalato. Tendenzialmente non ci bado
molto. Ovviamente quando ce n'è. Tendo a risparmiare per educazione ricevuta,
ma ogni tanto cedo...
La più trasgressione delle tue
trasgressioni ?
Sembrano le domande che ci sono in fondo a Io
donna... I desideri di trasgressione sono tanti ma sono troppo infantili ed
intimi per poterli comunicare... non li sa neanche mio marito.
Hai un sassolino nella scarpa che vorresti
toglierti ?
Ritornare a parlare con una grande maestra e
amica. Prima o poi ce la farò.
A chi volesse intraprendere la carriera
d’attrice che consigli gli vorresti dare?
Deve essere veramente necessario per la
propria vita. Una cosa di cui non si può fare a meno. Altrimenti non vale la
pena. Per se stessi e per il mondo anche. C'è una grande responsabilità nel
nostro mestiere. Il teatro è lo specchio della vita e ci restituisce qualcosa
che dovrebbe farci pensare o scuoterci emozionalmente. Quando queste cose sono
deluse è una cosa che grida vendetta a Dio (esagerata!) o ai soldi pubblici che
spesso vengono usati per delle velleità di pochi. Perciò c'è una grande
responsabilità. Ci vuole un lavoro di artigianato per arrivare a questo. Un
desiderio di esibizionismo non basta. Se c'è questo penso sia meglio cercare di
fare la tv. Anche se non è facile entrare in quell'ingranaggio e alla fine non
so quanto soddisfi.
Qual è il tuo tallone d’Achille?
La timidezza e l'insicurezza.
Hai un sogno nel cassetto?
Fare un film.
A chi vorresti dire grazie?
A mio marito. Che mi ha fatto capire di poter
puntare in alto.
Quali sono i tuoi progetti?
Ora vorrei scrivere. A gennaio poi porterò
nuovamente in scena il monologo su Etty Hillesum che Marina Corradi ha scritto
per me. A febbraio saremo in scena a Milano con un testo di Dacia Maraini
"Mela". Poi lavoreremo su Peguy. Un percorso sulla speranza, sempre
scritto da Marina Corradi. Tutto ciò con la nostra Compagnia Cantiere Centrale,
per la regia di Andrea Chiodi. Nel frattempo spero succeda qualcosa di nuovo e
aspetto di interpretare Margherita Cagol al Tetro Stabile di Bolzano a novembre
2010.
Parliamo un po’ di Roma. Ti va?
Roma è una città meravigliosa (ovvio, che
banalità) ma fatico un po' a viverci. Tante volte penso di trasferirmi
definitivamente e, qualche anno fa, non avrei avuto troppi dubbi. Ora, però, la
mia anima trentina e un po' astrungarica si fa sentire e preferisco la frenesia
lavorativa di Milano. Se potessi mi sposterei ancora più a nord (Parigi,
Londra, Berlino, perché no?). Qualcuno diceva che Roma è un po'
"puttana". E' tanto bella ma c'è sempre quella sensazione che ti
voglia un po' "fregare". Chissà. Certo che ogni cosa che ti capita
davanti agli occhi è tanto meravigliosa! Mi immagino sempre lo stupore degli
americani davanti a quel popo' di mattoni e storia e bellezza messi tutti
insieme.
Quando sei nella capitale, in quale zona
vivi?
Vivo in zona San Giovanni.
C’è un angolino romano che ami
particolarmente ?
Villa Pamphili.... chiamalo angolino! O il
Gianicolo. E vogliamo parlare del cortile di Villa Medici sopra piazza di
Spagna?
Cosa provi nel tornare a Roma dopo una
lunga assenza ?
Stupore. E poi mi sento un po' come Renzo a
Milano....
Come trovi i romani (pregi e difetti)?
Oddìo. Difficile. Quanto tempo e quante
righe ho per rispondere? Invidio nei romani la loro sicurezza e spavalderia.
Forse perché sono cittadini della capitale? Le corazze della montagna sono
difficili da togliere. Un po' le ho scalfite, ho cercato di imparare anche dai
romani ma non ci sono riuscita... E poi invidio la loro capacità di conversare
e di stare con la gente per il puro piacere di farlo. Quello che invece non
sopporto è che spesse volte, nel lavoro, si parla molto e si conclude poco. Ci
ho messo un po' ad abituarmi a questo "filtro ciarliero" sul lavoro.
Veramente non mi sono ancora abituata. Però queste definizioni che ho fatto dei
"romani" mi vengono già a noia. "La realtà è diversa da come
ce la immaginiamo noi" (diceva Etty Hillesum).
Qual è il fascino di Roma secondo te ?
Questa bellezza incommensurabile intrecciata
con la gente, cioè alla portata di tutti.
Cosa ti dà più fastidio di Roma o meglio esiste una Roma da buttare ?
Non so rispondere.
In quale Roma del passato ti sarebbe piaciuto vivere e nelle vesti di chi ?
Mi incarnerei in Michelangelo, a metà della creazione della Cappella Sistina.
Come vivi la Roma by Night ?
Teatro Teatro e ancora Teatro. Qualche volta
Trastevere. O da qualche altra parte dove si mangia bene. Ma dove non si mangia
bene a Roma?
Nei momenti liberi in quale zona di Roma
ami rifugiarti?
Sono ossessionata dalla chiesa di San Luigi
dei Francesi. Se non ci vado almeno una volta, quando sono a Roma, mi viene una
strana nostalgia.
Per un’artista, Roma, cosa
rappresenta?
Una città con grandi possibilità.
Soprattutto per il cinema. Ma anche un luogo di facili distrazioni. La creatività
va coltivata con pazienza. A Roma il rischio è di perdere molto tempo in
relazioni e coltivare poco il lavoro vero. Ma dal punto di vista delle
suggestioni... come ho già detto... è impagabile!