Ascanio Celestini
(attore, scrittore e regista)
Roma 22.1.2021
Intervista di Gianfranco Gramola
“Mi occupo di periferie, perché ci sono
nato in periferia e ci vivo. In televisione e sui giornali parlano di periferie
quando le periferie diventano scandalose, quando viene ucciso qualcuno, quando
scoppiano violenze o quando si parla di degrado”
Ascanio Celestini è nato a Roma il 1º
giugno 1972, da Gaetano e da Piera Comin. È
considerato uno dei rappresentanti più importanti del nuovo teatro di
narrazione. I suoi spettacoli, preceduti da un approfondito lavoro di ricerca,
hanno la forma di storie narrate in cui l'attore-autore assume il ruolo di
filtro con il suo racconto, fra gli spettatori e i protagonisti della messa in
scena. Tra i suoi spettacoli si ricordano: Cicoria. In fondo al mondo, Pasolini
(1998); la trilogia Baccalà, il racconto dell'acqua, Vita, morte e miracoli e
Milleuno, la fine del mondo (1998-2000); Radio clandestina (2000); Fabbrica
(2002); Scemo di guerra. Roma, 4 giugno 1944 (2004); La pecora nera. Elogio
funebre del manicomio elettrico (2005); Live. Appunti per un film sulla lotta di
classe (2006); Il razzismo è una brutta storia (2009); Pro patria (2012);
Discorsi alla nazione (2013). Nel 2007 ha girato il documentario Parole sante,
incentrato sul tema del lavoro precario, e contemporaneamente è uscito con lo
stesso titolo il suo primo album di canzoni; è del 2010 il suo primo
lungometraggio, La pecora nera, tratto dall'omonimo spettacolo teatrale,
racconto sull'esperienza dei manicomi e sull'alienazione dell'odierna società
dei consumi, cui ha fatto seguito nel 2015 la pellicola cinematografica Viva la
sposa. Tra le sue pubblicazioni più recenti si segnalano la raccolta di
racconti Io cammino in fila indiana (2011),Pro patria (2012), Un anarchico in
corsia d'emergenza (con M.L. Gargiulo, 2015) e Barzellette (2019).
Premi e riconoscimenti
2002: Premio Ubu speciale
2004: Premio Gassman miglior giovane talento
2004: Premio Hystrio alla Drammaturgia
2005: Premio Fiesole Narrativa Under 40
2005: Premio Ubu nuovo testo italiano
2006: Premio Flaiano
2006: Premio Città del Diario, assegnato
dall'Archivio Diaristico Nazionale[8].
2010: Sulmona cinema Film Festival: migliore
interpretazione maschile con il film La pecora nera.
2011: melhor filme, 04ª Edição festa do
cinema italiano, Portugal per La pecora nera
2011: Ciak d'oro 2011 come miglior opera
prima con il film La pecora nera.[9]
2011: Bobbio Film Festival: Premio
"Gobbo d'oro" al Miglior Film 2011, con il film La pecora nera
2011: Candidatura al premio come Miglior
Regista Esordiente al Nastro d'argento 2011, con il film La pecora nera
2011: Targa Graffio - Musica da Bere, a
Vobarno (Bs).
2011: Premio Dessì
2016 - Animavì - Cinema d'Animazione e Arte
Poetica, Bronzo Dorato Arte teatrale
Intervista
Mi racconti come ti sei avvicinato
al teatro della narrazione?
Parecchi anni fa studiavo antropologia,
quindi il mio mestiere era di fare interviste, di raccogliere materiale orale,
inizialmente storie delle tradizioni, quindi fiabe e leggende. Le prime cose
erano i racconti di mia nonna che aveva un repertorio di storie di streghe. Poi
pian piano sono passato a storie di vita, quindi ai racconti di esperienze
personali, soprattutto relative ad alcuni periodi, in particolare della seconda
guerra mondiale a Roma, ai giorni dell’occupazione antifascista. Fatto questo,
in qualche maniera mi pareva che questo lavoro mi portasse a metà strada, che
tutte quelle storie una volta raccolte poi che cosa diventavano? La vitalità
che c’è nel racconto di una vicenda personale, poi nel momento in cui quel
racconto, quella storia finisce in una trascrizione, diventa oggetto di studio e
in qualche maniera muore. Un po’ come il corpo che viene selezionato e messo
sul tavolo anatomico. Quindi mi sembrava che nel teatro ci fosse la possibilità
di tenere vive quella storie che io raccoglievo, quel patrimonio del racconto
orale. Facendo questo ho smesso di fare l’antropologo e ho cominciato a fare
il teatrante, il raccontatore.
Il tuo primo successo è stato “Radio
clandestina” che parlava delle Fosse Ardeatine. Come ti spieghi il successo di
quella storia così drammatica?
A Roma ci sono due grandi storie legate alla
seconda guerra mondiale. Una è il bombardamento di San Lorenzo, il 19 luglio
del 1943 e l’altra è quella dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Via Rasella…
Via Rasella è dove c’è stata l’azione
partigiana che ha fatto scoppiare la bomba e i nazifascisti fecero poi una
rappresaglia e portarono 335 persone alle Fosse Ardeatine. La storia del
bombardamento è una storia evidente, cioè si cominciava a parlare di
bombardamento quando il bombardamento non era ancora finito, nel senso mentre la
gente scappava dal quartiere, mentre moriva. L’eccidio delle Fosse Ardeatine
è una storia che è stato complicato riuscire a raccontarla, perché se ne è
parlato molto tardi, cioè quando le persone erano morte da tanto tempo. Quindi
c’è stato un lavoro di riesumazione dei corpi e anche di riesumazione di
storie. E’ stato un lavoro molto più lungo, molto più complicato, però in
qualche maniera testimonia il bisogno che abbiamo noi di conoscere la verità.
C’è un avvocato che si chiama Alessandra Ballerini, che è l’avvocato della
famiglia Regeni, che studia e segue appunto la storia di Giulio Regeni, il
ricercatore universitario italiano che è stato trovato morto al Cairo. Lei si
occupa principalmente di storie di ingiustizia legate all’immigrazione e ai
soprusi del potere e lei dice: “I miei clienti quando entrano nel mio studio,
vengono soprattutto per due motivi: chiedono giustizia e verità. Alle volte
entrambi, ma normalmente prima chiedono la verità e poi la giustizia”. Ed è
curioso, perché ad un avvocato uno chiede soprattutto giustizia. Invece in
particolare quando una persona è morta, quando la sua vita non può essere
recuperata in nessuna maniera, non è una persona che ha semplicemente subito un
sopruso, una violenza. In quel caso umanamente noi siamo più portati a chiedere
la verità, a sapere cosa è successo, a ricostruire gli ultimi istanti di vita.
Ci interessa più quello che non la giustizia, cioè punire il colpevole. Perché
poi in fondo, se puniamo il colpevole, non abbiamo in realtà nessuna
soddisfazione, perché la vita di un figlio che è stato ucciso, non me la ridà
nessuno. Per cui è molto più vitale e umano chiedere la verità che non la
giustizia. Per i morti delle Fosse Ardeatine è successa una cosa molto simile e
anche più in grande perché chiaramente lì erano centinaia di famiglie,
c’era il bisogno di ricostruire la vita di queste persone che non c’erano più.
Per cui la storia dell’eccidio, anche se è una storia del marzo del 1944,
racconta qualcosa che noi possiamo avvicinare a tante altre vicende, compresa
quella che sta succedendo in questi giorni, cioè la relazione che abbiamo con
la morte, con il covid. C’è il disastro umanitario che stiamo vivendo, che
consiste soprattutto nell’abbandono delle persone, nell’impossibilità di
stare vicino ad una persona mentre muore. E’ davvero disumano. Quelle bare che
abbiamo visto sui camion, a Bergamo, stanno lì a raccontare questo disastro.
Tecnicamente, razionalmente cosa ci cambia se una persona viene seppellita a
Bergamo o a Palermo ed eppure noi abbiamo bisogno di congedarci, di salutare i
nostri cari, fosse anche la bara già chiusa. Stavo rivedendo le immagini del
funerale di Berlinguer, dove c’era Sandro Pertini che poggiava le mani sulla
bara. Ma che senso ha una cosa del genere? Noi abbiamo bisogno di avvicinarci
alla concretezza delle persone, anche quando le persone non ci sono più e di
loro è rimasta soltanto una bara. Parlando delle Fosse Ardeatine, certo che
parlo della seconda guerra mondiale, in particolare della seconda guerra
mondiale a Roma, che è una storia che è stata raccontata ma per poco tempo,
soprattutto attraverso il cinema neo realista e in alcuni film straordinari. Però
la storia racconta della nostra relazione con la morte, soprattutto la nostra
consapevolezza e il fatto che le persone morte, sono state vive ed è il ricordo
della loro vita che noi abbiamo bisogno di non perdere, per recuperare.
Quindi è importante tenere viva la
memoria.
Io faccio sempre un esempio, a riguardo della
memoria, che sembra banale ma non lo è. Io penso sempre alle chiavi di casa, se
io ricordo dove ho messo le chiavi di casa, anche di una casa da dove sono
uscito da alcuni giorni o da mesi o da anni, quelle chiavi le tengo perché la
memoria di ricordarmi dove ho messo le chiavi, mi serve poi per rientrare in
quella casa. Cioè la memoria ha una funzione molto pratica, serve oggi nel
presente e serve anche nel futuro avere memoria. La memoria storica mi serve per
capire quello che mi sta succedendo. In questi giorni di crisi istituzionali, la
crisi di governo, l’uscita di Italia Viva, il governo che ottiene la fiducia
con la maggioranza relativa, qualcuno ha ricordato che non è la prima volta che
il governo ha una maggioranza così ristretta. Ecco, avere memoria di quello che
è successo nei governi di centro sinistra degli anni ’60, ci aiuta anche a
comprendere quello che succede adesso. Questo tornare indietro non serve
soltanto allo studente di storia per andare bene durante una interrogazione o ad
un esame. Serve proprio per capire quello che mi sta accadendo attorno. E’ uno
strumento che utilizzo al presente. Ti ripeto, è come le chiavi di casa, serve
ricordare dove le ho messe, perché senza le chiavi non entro dentro casa, anche
se quelle chiavi le ho messe io.
Nei tuoi spettacoli racconti storie di
lavoratori precari, di razzismo, di carcerati, di matti e di gente che vive ai
margini. Perché ami raccontare storie degli ultimi?
Per due motivi soprattutto. Il primo è perché
sono storie che non vengono raccontate o sono raccontate in maniera
semplificata. Io mi occupo di periferie, perché ci sono nato in periferia e ci
vivo. Parlano di periferie quando le periferie diventano scandalose, quando
viene ucciso qualcuno, quando scoppiano violenze o quando si parla di degrado. A
nessuno viene in mente di parlare di periferie e raccontarne la bellezza, per
tanti motivi, anche perché le periferie molto spesso non hanno niente di bello.
Però noi potremmo dire la stessa cosa del centro di Roma, di piazza del Duomo a
Milano o piazza San Marco a Venezia. Noi quella la raccontiamo sia quando c’è
la violenza, lo stupro, lo spaccio di droga ma soprattutto quando vogliamo
raccontarne la bellezza, cosa testimonia e qual è la sua funzione per il resto
del paese e del mondo. Per cui le periferie vengono raccontate solamente quando
succede qualcosa di scandaloso. Io mi occupo di storie di esseri umani, perché
nelle persone che vivono situazioni di precarietà, l’essere umano è più
visibile. Io non credo che il presidente del consiglio di amministrazione di una
multinazionale sia meno interessante del detenuto, però il detenuto non ha
nessuna difesa, non ha una corazza, ha una maschera ma a fronte delle mille
maschere che può indossare il presidente del consiglio di amministrazione di
una multinazionale. Molti di noi abbiamo la possibilità di mostrare
l’immagine che vogliamo di noi stessi, ci possiamo mascherare per fare vedere
qualcosa che non siamo. Questo serve per difenderci, non per forza per barare.
Chi vive la condizione di subalternità, di grande precarietà, queste difese
non ce l’ha, per cui lì l’essere umano è più visibile e soprattutto una
delle caratteristiche dell’essere umano, una delle caratteristiche che ci
accomuna tutti quanti su questo pianeta, è la debolezza, la paura. La paura nel
presidente del consiglio la vedo meno, lui ha tutti gli strumenti per
nasconderla. Nel barbone la vedo più chiara e quindi è più interessante per
uno che fa il mio mestiere.
Il 14 marzo del 1978 sono sceso dal mio
Trentino per fare il servizio militare a Bracciano, vicino a Roma. Due giorni
dopo ricordo che hanno rapito l’On. Aldo Moro. In un tuo spettacolo hai
voluto raccontare anche questo dramma.
Io sono cresciuto sentendo la domanda perché
hanno rapito Aldo Moro e non Giulio Andreotti? Per uno storico può essere una
questione risolta, forse è anche una domanda banale, però se è un domanda che
si pongono e si sono poste centinaia di persone, forse non è banale, ed è una
domanda che ci dobbiamo porre. Perché lui e non Fanfani? Perché lui e non
Cossiga? La risposta è nella storia di quegli anni, soprattutto di quei 20
anni, tra il 1960 e il 1978/81. Prima mi chiedevi della memoria storica, quella
va cercata anche nei film. E’ curioso che nel cinema italiano abbiamo
affrontato di tutto, qualsiasi argomento, poi ad un certo punto il cinema
italiano ha cominciato ad essere distratto rispetto a quello che stava
accadendo. Anche la seconda guerra mondiale è stata affrontata subito dal neo
realismo e c’è arrivata anche la commedia all’italiana con alcuni film
straordinari. Poi in quegli anni lì, ne hanno parlato poco nei film di Gianni
Amelio e Marco Tullio Giordana. Se n’è parlato poco e sembrava quasi una
provocazione, invece in quegli anni c’era un qualcosa di molto importante e se
non capiamo quello che è successo in quel periodo, non riusciamo a capire perché
siamo arrivati a questo punto. Da dove arriva ad esempio la nostra memoria
corrotta. Ti faccio un esempio. Ad un certo punto ho perso il computer e ho
perso una montagna di file. Per noi perdere la memoria è come rompere un
computer, o se bruciasse una biblioteca, come se ci fosse caduto il cellulare e
quindi perdendo il 90 % dei contatti. Noi abbiamo perso un pezzo della nostra
storia, dobbiamo ritornarci. Molti di noi non si ricordano i sogni che fanno,
però ci sono dei sogni ricorrenti. Ad un certo punto anche quando non sono
visibili, noi dobbiamo cercare di capire perché sogniamo sempre quello, perché
si torna a sognare la stessa cosa? Perché sogno
mio padre, mia madre o perché sogno
di entrare in una casa senza mobili? Noi andiamo dall’analista e facciamo per
anni analisi per capire perché siamo diventati quello che siamo diventati.
Quindi dobbiamo scavare nel nostro passato e nel passato c’è qualcosa che
psicanalisticamente abbiamo rimosso. Parlano tanto di identità italiana, di
identità europea, delle radici cristiane d’Europa e parlando di cultura
europea quello che è successo 40 anni fa, sembra già messo a posto, già
risolto, invece non abbiamo risolto proprio niente, addirittura sono rimasti dei
termini nel linguaggio politico, tipo “governo balneare”. Governo balneare
è un governo Leone, dopo due governi Fanfani. Il governo che nel ’63, subito
prima del cosiddetto centro sinistra organico. Aldo Moro è stato il primo
Presidente del Consiglio del partito socialista al governo. Il partito
socialista del 1963 fino al governo prima era un partito alleato con il partito
comunista. Ci sono delle cose, delle convergenze parallele, che non sono
soltanto quelle di Moro e di Berlinguer. Io credo che non le abbiamo per niente
risolte in quegli anni. Se ci stanno dei giovani di destra che si considerano i
fascisti del nuovo millennio, è perché evidentemente c’è qualcosa che non
abbiamo risolto nel fascismo e nell’antifascismo e noi non solo rischiamo di
fare gli stessi errori, ma di farne di nuovi e peggiori.
A cosa stai lavorando ora?
In questi giorni di chiusura dei teatri, ho
fatto un progetto all’Auditorium di Roma. Abbiamo fatto praticamente sei
spettacoli che abbiamo messo on line. Quindi
l’alternativa al teatro per adesso è sfruttare il teatro il più
possibile, cioè continuare a lavorare all’interno del teatro, fare produzioni
teatrali, fare spettacolo con gli attori e musicisti e prepararsi per il momento
in cui potremmo far entrare il pubblico. Per cui abbiamo fatto questo progetto
che si chiama “Posto unico”, con il Parco della Musica, al quale hanno
partecipato una serie di musicisti, come Paolo Fresu, Antonello Salis, Ambrogio
Sparagna, ecc … e anche una serie di intellettuali che ci hanno aiutato a
riavvicinarci a certi argomenti. Poi sto facendo un lavoro di raccolta di
materiale per debuttare, credo attorno a novembre, con uno spettacolo su Pier
Paolo Pasolini.
Parliamo della tua città. Come ricordi la
Roma della tua gioventù?
Quando ero ragazzino stavo nella mia
periferia, in una borgata che si chiama Morena. Non è la Roma che sta sulle
cartoline. La Roma di quando ero ragazzino io, era la periferia che stava a un
paio di km fuori dal raccordo anulare. Roma è una città che è fatta di tante
periferie, ma più che periferie sono ghetti, sono club, con abitanti che
conoscono a malapena il centro della città e il proprio settore. Ci sono
periferie che le persone le conoscono esclusivamente perché ci abitano. Io
credo che se ad un romano chiedi dove sta casal di Marmo e dove sta San Basiglio,
non te lo sa dire o credo che siano pochissimi i romani che saprebbero mettere
il dito su una mappa della città e dire dove stanno una serie di quartieri. Io
avevo un’amica da ragazzo che viveva dall’altra parte della città, rispetto
a dove abitavo io, lei stava sull’Aurelia e io sulla Tuscolana. Lei mi diceva:
“Stasera torni al tuo paese?”. Lei pure stava
in periferia, perché stava a Massimina e io stavo a Morena ed era come
vivere in due città diverse.
In quale Roma del passato ti sarebbe
piaciuto vivere?
Io non arriverei molto lontano, a me piace
anche semplicemente questa Roma, anche perché questa città ha una
caratteristica strana. Quando si dice la “città eterna”, ecco, l’eternità
di questa città è un po’ la sua dannazione, perché ti da la sensazione che
non cambi mai, che sia sempre la stessa, con tutte le sue magagne, con tutte le
sue pecche. Però è davvero una città che quando l’attraversi, non
attraversi solamente un luogo, ma anche il tempo. E’ una caratteristica di
molte città, solo che a Roma è più visibile, e macroscopica. Per cui a me va
bene vivere in questo tempo e Roma più che eterna è una città immobile.
Fra un po’ ci saranno le elezioni del
nuovo sindaco. Un paio di consigli ai candidati?
I consigli da dare ai candidati sono gli
stessi da anni. Loro dovrebbero conoscere la città così come è adesso e
soprattutto fare una campagna elettorale raccontandoci cosa intendono fare per
la città per i prossimi 20 anni. Il politico va in televisione e basta una
battuta, una frase sbagliata che magari è contro il governo, del quale fa
parte, e possono crollare i mercati. A me piacerebbe tanto che i politici
mettessero da parte il loro ruolo di politico e soprattutto adesso, la politica
spettacolo, quella che si fa sui social e pensassero invece che una città tu la
devi immaginare come sarà tra 20 anni e cominciare a lavorare affinché questa
città diventi quella che stai immaginando. Questo a Roma è successo rarissime
volte, è successo alla fine degli anni ’70, perché ad un certo punto il
sindaco di questa città è diventato politico, uno che era un grande
intellettuale che era Giulio Carlo Argan. Lui era un grande urbanista e un suo
allievo che si chiamava Giorgio Labò, diventò partigiano e poi venne ucciso,
sappiamo dagli scritti di questo giovane studente di architettura, che lui il
mondo del futuro lo immaginava pensando alla città del futuro. Immaginava una
città del futuro per far vivere meglio i suoi abitanti. Oggi abbiamo dei
politici che raramente prendono voce e fanno finta di essere intellettuali, si
fanno scrivere i libri e ci mettono il loro nome sopra. Però quello che mi
piacerebbe è che ci fossero dei candidati, non solo il sindaco, perché da solo
non può cambiare niente, che per prima cosa ci coinvolgessero per cambiare la
città e farla diventare quella che ci immaginiamo possa diventare in futuro,
non tra un mese o due mesi. Si dice sempre: “Il politico si vede in cosa
realizza dopo i primi cento giorni”. Ma chi se ne frega dei cento giorni, dei
tre mesi, io voglio vedere come sarà la mia città fra 20 anni, però per
cambiare la città, per migliorarla, per sostenerla, per renderla più bella e
solidale, bisogna conoscerla. Che un romano che abita a Torpignattara non sappia
dove sta Boccea, può andare bene, magari fa l’idraulico o il cardio chirurgo,
però un sindaco no, un sindaco deve conoscere la sua città.
Rutelli è stato un buon sindaco, che
conosceva bene Roma.
Ci sono stati alcuni sindaci, che meglio di
altri, hanno dato l’impressione che hanno
lavorato ascoltando quello che succedeva nella città. Però secondo me Rutelli
come sindaco è stato fortunato, perché è capitato a fare il sindaco nel
momento in cui Roma era più vitale. Però purtroppo la vitalità di questa città
ora bisogna andare a cercarla.