Carmen Lasorella (giornalista e scrittrice)
Roma 3.10.2023
Intervista di Gianfranco
Gramola
“Nel lavoro ho scontrato sicuramente tanti
ostracismi legati al fatto non tanto di essere donna, ma di essere magari una
donna che veniva considerata più pericolosa perché aveva anche un fascino.
Questo è un altro elemento assurdo”
Giornalista, anchor-woman, cronista di
guerra, autrice di reportage, conduttrice di programmi Radio e Tv, responsabile
della Comunicazione Rai. Ha raccontato le principali crisi internazionali a
cavallo tra il XX e il XXI secolo. Corrispondente da Berlino. Direttrice della
Tv di San Marino. Presidente RaiNet. Opinionista, scrittrice.
Da sempre in viaggio.
Intervista
Il suo ultimo libro ha per titolo
“Vera e gli schiavi del terzo millennio”. Mi racconta com’è nata l’idea
di scrivere questo romanzo e chi sono gli schiavi del terzo millennio?
La narrativa è sicuramente un grande spazio
di libertà, è sempre stato così e credo che sia anche oggi uno strumento
molto moderno. Nella fretta di una comunicazione fatta di piccole notizie
neanche messe in fila ma in ordine sparso, quindi notizie che non informano e
che non servono a creare una coscienza critica o altro, la narrativa invece è
uno spazio dove si può spaziare, dove si può liberamente raccontare,
approfondire, perdersi ed entrare anche nel proprio tempo. Per cui è uno spazio
che io ho colto con gioia, l’ho scelto in questo momento in cui per evidenti
ragioni altri spazi che io ho frequentato per tanto tempo, non erano più i miei
spazi, ho trovato questo dove mi sono trovata benissimo, dove ho potuto spaziare
nei sentimenti, nelle storie e ho potuto in qualche modo rappresentare quella
che è una realtà che ci circonda nelle sue tinte che sono tante ma che
purtroppo stanno un po’ virando in una dimensione che ci piace poco che è
quella della deumanizzazione. Per esempio a proposito del tema che è uno dei
temi fondamentali del mio libro, l’immigrazione, per via degli schiavi del
terzo millennio, è l’umanità vulnerabile di chi sta migrando. Io non amo la
parola migranti perché è una parola che omologa e non mi piace. Quindi di chi
è costretto a spostarsi, di chi si muove come è sempre accaduto nella storia
dell’uomo, dell’umanità. Stiamo perdendo questo elemento fondamentale che
è la nostra umanità. Perché dinanzi ad una tragedia come questa, non solo
c’è una colpevole indifferenza, ma peggio c’è proprio l’assenza, il
vuoto e tutto questo è favorito da discorsi di odio, da propaganda e da
strumentalizzazioni economiche e politiche. Il libro ha diversi piani di
racconto, ci sono le storie, c’è la denuncia e ci sono anche le possibili
strade per andare verso le soluzioni, perché non c’è niente che non si possa
risolvere quando si vuole risolvere e quindi in questo caso è un problema di
soluzioni che non si vogliono cercare.
Scrivere questo libro non è stato uno
sfogo ma una sorta di urgenza personale?
Direi che è nato anche un po’ dalle cose
che ho fatto, perché io ho diretto anche un master sulle immigrazioni forzate e
quindi ho avuto modo di approfondire molto bene questa materia con tanti punti
di vista, con specialisti di diritto, specialisti legati alla sociologia, alla
storia delle immigrazioni, operatori di vario genere, anche quelli che sono
ruoli istituzionali preposti al fenomeno, lo spazio europeo, perché poi bisogna
sempre allargare lo sguardo, e quindi tutto questo ha fatto si che maturasse una
lettura di queste cose e francamente mi sono ritrovata a disagio rispetto alle
continue mistificazioni che sono state proposte, soprattutto nel nostro Paese
che veramente ha indicato coloro che migrano come il nemico, la minaccia e che
dovevano per me almeno in una narrazione, in un romanzo, trovare le voci giuste.
Mi racconta com’è nata la sua passione
per il giornalismo e con quali giornalisti di riferimento è cresciuta?
Parlando dei giornalisti di riferimento,
nelle differenze fondamentali, diciamo la generazione precedente, perché io ero
molto giovane quando i grandi del giornalismo erano avanti con gli anni e quindi
penso a Montanelli, penso a Bocca, penso agli Ottone, a Ronchey, alla stessa
Oriana Fallaci che aveva però un taglio molto più narrativo che non legato
alla stretta cronaca dei fatti. Diciamo che questo mestiere ha avuto delle
figure importanti nel nostro Paese, sia nelle differenze che nelle visioni di
chi era più in un mondo progressista piuttosto che in un ambito conservatore,
di grandi illuminati, identitari, autorevoli, non come ora che francamente si fa
fatica a distinguere cos’è pubblico e cos’è privato e si capisce soltanto
da che parte si sta. Io ho cominciato a scrivere su un giornale che avevo 14
anni, ho cominciato presto, l’altra mia passione era il teatro, quindi ho
semplicemente assecondato quello che era il mio desiderio e mi ritengo fortunata
di esserci riuscita.
Come inviata di guerra il primo conflitto
che ha seguito è stato quello della guerra del Golfo. Come ha vissuto la
“gavetta” da inviata?
Con molta umiltà, perché bisogna imparare.
Questo è un mestiere complicato, dove i fatti si toccano, dove si entra in
realtà difficili, dove non solo c’è il dolore ma anche la sofferenza che è
ancora di più, dove c’è la violenza, la prevaricazione, dove si è testimone
di cose orrende e quindi per evidenti ragioni non si può che avere un approccio
che sia un approccio di chi cerca di muoversi senza sbagliare. Naturalmente alla
base ci sono molte letture, molti approfondimenti e non si va allo sbaraglio, si
va almeno con un po’ di infarinatura o qualcosa di più possibilmente. Ma
anche con la conoscenza della letteratura, della poesia, dei popoli che si vanno
ad incontrare, purtroppo a volte ci si ferma all’elenco dei fatti legati ad
una storia spicciola e non si considera qual è la radice di un popolo. Io ho
avuto la fortuna di poter cominciare questo mestiere e proseguirlo andando
sempre a cercare qualcosa che fosse nell’anima, perché quello può spiegare
tante cose, anche se poi con il tempo le società cambiano radicalmente.
Oggi mi è capitato in mano il suo libro
“Verde e zafferano”, ambientato in Birmania. Cosa l’ha colpito di questo
Paese asiatico?
La Birmania era un Paese con una dittatura
feroce, cieca. A suo tempo riuscii ad avere un incontro con la leader birmana
della resistenza, Aung San Suu Kyi, e dopo quell’incontro nel protrarsi di un
regime feroce che provocava un’infinità di vittime e negava i diritti
fondamentali, ho avuto voglia e il piacere di scrivere un libro
insolito perché era sostanzialmente una corrispondenza virtuale. Era uno di
quei periodi in cui ero in conflitto con la mia azienda, ma non perché ero una
persona che cerca la conflittualità, ma perché per difendere il proprio
mestiere si entra anche in conflitto con la propria azienda o con il proprio
giornale. Quindi rimanendo in Italia e sulla scorta dell’incontro che ho avuto
con Aung San Suu Kyi alcuni anni
prima e quindi sulla conoscenza diretta dei luoghi, perché quella è sempre
necessaria per capirci i fatti hanno un odore, i luoghi hanno un qualcosa che è
legato a quei luoghi e ciò non si vede nelle immagini sul web, sono cose che
devi sentirti addosso, che devi aver vissuto. Quindi forte di questo sono
ritornata in modo virtuale nel Paese mentre erano in corso le proteste dei
monaci buddisti e anche lì ho avuto il piacere di dare una testimonianza
rispetto ad una sostanziale sottovalutazione di quello che stava accadendo.
Perché poi purtroppo l’Italia è molto sorda ai problemi degli altri,
facciamo un gran parlare, mettiamo il megafono sui nostri problemi ma non ci si
rende conto che ci sono tanti problemi comuni e se ci occupiamo un po’ di più
di quelli degli altri, forse ci occupiamo meglio dei nostri.
Lei ha intervistato molti personaggi
illustri. Ce n’è stato uno che l’ha fatta tribolare?
Non saprei dire, anche perché ogni
intervista, ogni incontro ha la sua storia, quindi per evidenti ragioni dipende
da circostanze particolari, a volte sono interviste veramente rubate perché non
c’è tempo per organizzarle. Oggi si prendono gli appuntamenti, ma quando si
è sul fronte, sul campo, si prende e si fa al momento, quindi un approccio
completamente diverso. Una volta ho incontrato Hassan Nasrallah, che era il capo
degli hezbollah libanesi, e fu una cosa un po’ alla spy story, perché un
tratto di strada l’ho fatto con gli occhi chiusi, poi giri a vuoto, prima di
arrivare nel luogo dove l’avrei poi incontrato. Cose un po’ particolari ma
queste fanno parte della letteratura
di un certo giornalismo che forse c’è sempre di meno.
Un suo ricordo del giornalista Tiziano
Terzani?
E’ stato un ricordo breve, perché ho
conosciuto Tiziano Terzani in occasione dell’handover, ovvero del passaggio di
Hong Kong dalla Gran Bretagna alla Cina, quindi dopo 156 anni di dominio
britannico, Hong Kong che era una perla, un qualcosa che non aveva niente a che
vedere con la Cina, tant’è che c’erano delle grandi preoccupazioni,
considerato anche la piazza finanziaria di Hong Kong, una piazza importante e
poi perché era diventata il luogo di rifugio di tanti dissidenti e quindi un
momento decisamente molto particolare. Mi pare che fosse nel ’97 se non
ricordo male. Io avevo degli spazi miei, non spazi di news, di telegiornali o
cose del genere e quindi organizzai questa trasferta a Hong Kong e chiamai
Terzani perché sapevo che la stava seguendo anche lui. Tiziano Terzani era in
una fase difficile, cioè nell’ultimo periodo della sua vita e fu molto carino
con me, mi conosceva perché ovviamente la televisione la vedeva anche lui e
quindi fu una cosa molto veloce, l’appuntamento all’hotel Peninsula di Hong
Kong, preceduta però da un paio di belle conversazioni dove io ero
emozionatissima perché lui era un punto di riferimento anche proprio per il suo
rigore. Il mestiere di giornalista è un mestiere che veramente si è
frantumato, si è coriandolizzato. C’è il rispetto della notizia che poi è
il rispetto di chi è protagonista o vittima, ed è fondamentale e bisogna anche
proseguire in un impegno che non separi i fatti ma li metta in una successione
logica per cui noi il più delle volte sentiamo notizie che sembra che accadano
a caso, in un lago di niente, mentre invece come sempre i fatti hanno una storia
e quindi avere il privilegio di poterla seguire è qualcosa di bellissimo.
In Tv ci lavorano molte giornaliste. E’
un passo verso la parità o siamo ancora lontani anni luce?
Io devo dire che ho avuto il privilegio di
essere in una famiglia con due genitori assolutamente pari e quindi per me
questo problema fin da quando ero ragazzina non
si è mai posto e poi ho ricevuto un’educazione che era rivolta alla
persona e non alla femmina o al maschio, quindi questo è stato un altro
privilegio. Nel lavoro ho scontrato sicuramente tanti ostracismi legati al fatto
non tanto di essere donna, ma di essere magari una donna che veniva considerata
più pericolosa perché aveva anche un fascino. Questo è un altro elemento
assurdo e fuori di testa. Le prevaricazioni continuano ad esserci nei confronti
delle donne e quindi anche la violenza, la cronaca ci sbatte in faccia
continuamente degli episodi di sangue ed è un ritorno al medio evo. E’ questa
la disparità e nella nostra società le donne dovrebbero essere più
consapevoli che ci sono i diritti, ci sono i doveri, che la società si deve
declinare al maschile e anche al femminile. Io non ho mai posto una questione di
genere ma da sempre mi sono battuta perché ci fossero uguali possibilità.
Credo che questa strada, rispetto a quando ho cominciato, fosse sicuramente
per alcuni versi più agevolata e tanti versi purtroppo abbia trovato
delle curve improvvise, delle salite e anche dei muri, perché se penso a questo
nostro povero mondo, guardando all’Afghanistan, guardando all’Iran,
guardando alla Siria, c’è lo sconforto più assoluto. Diciamo che le nostre
società hanno anche il dovere di preoccuparsi di quello che succede nel proprio
interno, ma soprattutto deve rivolgere lo sguardo anche al di fuori, perché ci
sono delle situazioni inaccettabili.
Il 9 febbraio del 1995 ha subito un
attentato a Mogadiscio in cui perse la vita sotto i suoi occhi Marcello
Palmisano. Come ha superato questo trauma?
Guardando avanti, senza dimenticare niente.
Ho voltato pagina perché la vita è fatta di tante pagine e per fortuna finché
ce ne sono, bisogna leggerle. Però sostanzialmente non ho dimenticato niente
perché poi sono episodi che non solo lasciano un segno
profondo, ma nel mio caso c’era un collega, Marcello Palmisano che
c’ha lasciato la vita. Poi c’è stata tutta quella che è stata una
selvaggia cagnara contro chi era andato a cercare e a raccontare la guerra,
perché la logica da noi è terribilmente provinciale. Addirittura c’è stato
chi ha scritto che era una sorta di espressione dello star system, per cui si
andava all’estero per cercare visibilità, cose aberranti che offendono la
serietà di chi mette a rischio la propria esistenza e di chi poi l’ha
perduta. Poi per fortuna il tempo ha diluito l’accaduto e oggi è normale che
si vada o meglio oggi si va di meno
perché costa quindi si fa via web. Però sostanzialmente girare è una cosa
normale.
A dei ragazzi che vogliono fare i
giornalisti, che consigli darebbe?
Di prepararsi, bisogna saperne di più degli
altri, bisogna essere in grado di affrontare tanti temi, più sai più ti rendi
conto che sai tanto poco e quindi oggi con gli strumenti che ci sono per
comunicare è più facile, però ci vuole anche una responsabilità maggiore,
non basta smanettare sul computer o scrivere quattro parole in croce ma bisogna
sapere di che si parla. A volte leggo dei post che mi lasciano interdetta perché
leggo un po’ di parole in libertà.
Il mestiere del giornalista è un mestiere meraviglioso, se lo vogliono fare lo
facciano, però consapevoli che è un mestiere dove devono mettere al primo
posto la responsabilità e il rispetto degli altri e soprattutto continuare a
conoscere e mai considerarsi soddisfatti, ma bisogna cercare sempre di andare
oltre.
A chi vorrebbe dire grazie?
Ce ne sono tante di persone a cui devo dire
grazie. Nella vita più vai avanti e più ti accorgi che devi dire grazie tante
volte. Devi molto a te stessa, ma se le circostanze, gli incontri che hai avuto
non ci fossero stati, probabilmente saresti da un’altra parte. Io devo dire
che ho detto tante volte grazie, ma grazie a persone che mi hanno aperto degli
orizzonti, grazie all’esempio di chi si è sacrificato, grazie alla generosità
di chi ha parlato con me, grazie alla pazienza che ho incontrato. Questi sono i
grazie che devo dire, non ce ne sono altri.
Quali sono le sue ambizioni?
Devo continuare a voltare pagina, per il
resto sono una persona che vive la vita con
impegno, con gioia, con allegria. Mi piacciono i colori, mi piace la
musica e mi piace viaggiare. In questo momento non ho minimamente ridotto la mia
attività, giro moltissimo, sono sempre avida di nuove situazioni, di nuove
esperienze e tra poco metterò mano al mio secondo romanzo, ma di questo ne
parlerò nella prossima intervista.