Dan Peterson (allenatore e giornalista
sportivo) Milano
11.2. 2020
Intervista
di Gianfranco Gramola
"Mio padre, che era tenente di polizia,
voleva che io facessi l’avvocato, mentre mia madre, che era artista e stilista
di moda, voleva che io studiassi all’Istituto di Arte di Chicago, una scuola
molto famosa"
Io e Dan Peterson ad Andalo (Trentino),
durante una pausa della trasmissione "A tambur battente"
Daniel
Lowell "Dan" Peterson è nato a Evanston
il 9 gennaio del 1936. Frequentò la Oakton
Elementary School, la Nichols Jr. High School e la Evanston
Township High School (ETHS). Fu
proprio il suo coach, Jack Burmaster, a ispirarlo a intraprendere a sua volta la
carriera di allenatore, dopo che la squadra guidata da Peterson aveva vinto tre
titoli in tre anni con la Ridgway Club nella YMCA di Evanston. Nel 1958
si laureò come insegnante di pallacanestro alla Northwestern University. Nel
1962 ricevette un titolo accademico in Sport Administration dalla
Michigan University. Dal 1963 cominciò ad affermarsi come allenatore nelle
università americane di Michigan State e USNA, poi nel 1966 divenne capo
allenatore all'università del Delaware, posto che mantenne per i successivi 5
anni. Nel 1971 diventò capo allenatore della nazionale cilena, portandola al
sesto posto nei giochi del Sud America. Dal 1973 cominciò l'avventura in
Italia, prima alla Virtus Bologna,
con cui vinse la Coppa Italia del 1974 e lo scudetto del 1976, e poi, dal 1978
al 1987, all'Olimpia Milano, con cui vinse 4 scudetti (1982, 1985, 1986 e 1987),
2 Coppe Italia (1986 e 1987), una Coppa Korać (1985) e una Coppa dei
Campioni (1987). Si ritirò nel 1987. Nelle
stagioni 2008-09 e 2009-10 è stato consulente della Reyer Venezia. Il
3 gennaio 2011 subentra, dopo 23 anni di inattività sportiva, all'esonerato
Piero Bucchi sulla panchina di Milano. Esordisce con una vittoria interna al
Mediolanum Forum ai danni di Caserta per 98-84. Il 7 giugno dello stesso anno,
dopo la sconfitta in semifinale (gara 4) contro Cantù e la conseguente
eliminazione, lascia a Sergio Scariolo la guida dell'Olimpia. All'inizio
degli anni ottanta iniziò a commentare le partite del basket NBA su Canale 5
con il suo spiccato accento statunitense. Diventò in breve tempo un personaggio
famoso anche al di fuori del mondo degli sport, soprattutto grazie ad alcune
campagne pubblicitarie del tè Lipton che lo videro protagonista tra il 1985 e
il 1994. Grazie a questa popolarità, a partire dagli anni novanta gli venne
offerta la conduzione delle telecronache della Lega Italiana Basket per TMC,
Tele+, Rai e infine Sportitalia. Divenne anche la voce del wrestling in Italia,
commentando su Italia 1 tra la fine degli anni ottanta, l'inizio degli anni
novanta gli show della WWF/WWE (nell'ultimo anno, affiancato da Christian
Recalcati). Partecipò
a diverse trasmissioni televisive come opinionista e collaborò con La
Gazzetta dello Sport, il sito Basketnet e altre riviste di basket come Giganti
del Basket, Superbasket e American Superbasket. Nell'estate
2002 fu commentatore dello Slamball, su Italia 1, assieme a Giacomo Valenti. Dal
2005 al 2013 è stato uno dei commentatori e opinionisti di Sportitalia e scrive
per La Gazzetta dello Sport e il settimanale Sportweek. Si è risposato
con Laura Verga, figlia del grande, mitico, campione di motonautica Mario Verga.
Ha
detto:
- Mio padre era esigente. Come me.
E poi era appassionato di sport: nuotava nel lago Michigan, ha gareggiato con
Johnny Weissmuller, il Tarzan del cinema.
- Io non guido una macchina, non ce
l’ho da anni. Gli italiani sono troppo bravi a guidare, mentre noi americani
siamo un po’ polentoni… In America con le strade larghe la velocità è più
lenta e io sono a mio agio, ho tolto un pericolo dalla strada.
- Le donne sono fondamentali. Ragionano più degli uomini, abituati a gettarsi;
le donne sono invece maggiormente riflessive, portate al sacrificio, molto più
professionali di noi.
- Dicono da anni che all’epoca
ero agente della C.I.A. in Cile.
- Per avere successo, gli aspetti più importanti sono: credere in te stesso e
nella squadra, sapere che giochi contro persone bravissime, dare sempre il
meglio di te e trasmettere fiducia agli altri.
Intervista
Lei è un commentatore sportivo. Com’è
nata la sua passione per il basket?
Ho iniziato ad appassionarmi al basket a otto
anni, nella mia città a nord di Chicago. Quindi
ero piccolo e non avevo l’età, l’altezza e neanche il talento, però mi
piaceva molto questo sport. Quando avevo 15 anni c’era un gruppo di ragazzi
che cercava un allenatore e mi hanno chiesto se volevo fare l’allenatore per
tutti gli sport, non solo per il basket. Mi piaceva molto l’idea, inoltre loro
erano dei grandi talenti. Ho accettato e devo dire che ho avuto la fortuna di
cominciare ad allenare con grandi stelle e con questi ragazzi ho trovato la mia
identità. Con loro siamo rimasti amici e ogni tanto li incontro nella mia città.
Mi vengono a prendere all’aeroporto. Diciamo che c’è una bella amicizia.
I suoi genitori che futuro speravano per
lei?
Mio padre, che era tenente di polizia, voleva
che io facessi l’avvocato, mentre mia madre, che era artista e stilista di
moda, voleva che io studiassi all’Istituto di Arte di Chicago, una scuola
molto famosa. Però il coach del nostro Liceo, pur non tenendomi in squadra, ha
visto il mio lavoro con i ragazzi e mi ha incoraggiato a intraprendere la
carriera di allenatore di basket, perché evidentemente vedeva in me del
potenziale per fare ottimi risultati. Grazie a questa spinta, a questo
incoraggiamento datomi da una persone che stimavo alle stelle, ho deciso di
seguire il suo consiglio, pur sapendo di non avere il biglietto da visita del
grande campione.
Oltre al basket segue altri sport?
Ovviamente come tutti gli americani, ho
giocato per due anni a football americano, da cui ho preso solamente tante
botte. Il mio sport preferito, dopo il basket, è il baseball. I miei amici in
America mi dicono sempre: “Perché hai allenato nel basket? Eri molto più
bravo come allenatore di baseball”.
In Italia che sport segue?
Il calcio, per forza. C’è un bombardamento
continuo in televisione del calcio. Seguo anche il basket italiano e quando ci
sono le Olimpiadi, seguo tutte le squadre italiane. Seguo Fognini nel tennis,
seguo la Pellegrini nel nuoto e sono il loro primo ammiratore e gioisco con loro
per i grandi successi.
Nella sua vita professionale, sono state
più le soddisfazioni o le amarezze?
Molto più le soddisfazioni. Però ogni
soddisfazione non vuol dire necessariamente vincere un titolo. Io ho amato tutte
le squadre, anche quelle che non hanno vinto un titolo. Per esempio con il Cile
siamo stati al sesto posto nei giochi sudamericani, però ho amato molto quella
squadra. Anche qui a Milano per due volte la mia squadra è arrivata seconda in
Italia e seconda in Europa, però era una grandissima squadra, che mi ha dato
grandissime soddisfazioni. Le amarezze sono solo nel vedere le mie squadre che
hanno fatto tanto, non arrivare fino in fondo. Quindi gioie tante, amarezze
poche.
Nello sport si gioca più con il cuore o
con il cervello?
Hai fatto una bella domanda, Gianfranco. Nei
momenti che veramente contano, dove la palla scotta, ogni time out dicevo ai
miei giocatori: “Metteteci il cuore ragazzi”. Ovviamente serve la
concentrazione mentale, anche il cuore e la testa e questi ingredienti messi
insieme ti fanno vincere.
Qual è il segreto del suo successo?
Quando ero allenatore ero molto esigente,
soprattutto con la preparazione atletica. Il 90 per 100 del mio successo era
quando le mie squadre facevano quotidianamente dei durissimi allenamenti, oltre
chiaramente alla preparazione mentale. E questo portava poi a degli ottimi
risultati, perché io volevo una squadra sempre più grande delle altre squadre,
se era possibile.
Ha dei rimpianti, delle delusioni?
Le finali che non abbiamo vinto. Mi ricordo
nell’84 abbiamo perso lo scudetto in finale, con Dino Meneghin squalificato.
Era la finale della Coppa delle Coppe. Ho pianto per questo, perché è stato
veramente troppo per me. Avrei voluto giocare, come tutti, poi Meneghin fu
squalificato in maniera scandalosa, imperdonabile. Ho sofferto molto in quella
gara.
Ha seguito la storia del ciclista Marco
Pantani? Cosa ne pensa?
Non sono abbastanza informato per farne un
commento. Lui era un grande campione ovviamente. Poi ci sono tante storie che
vengono fuori, doping e droga, ogni giorno noi leggiamo e viene fuori una cosa
nuova. Addirittura i genitori chiedono di riaprire il caso, la Gazzetta dello
Sport scrive “Novità sul caso Pantani”. Secondo me è una storia che non
avrà un capitolo finale. E’ un fatto che fa molto male.
Lei nella trasmissione “A tambur
battente” si è esibito cantando con la chitarra. Com’è nata questa
passione musicale?
Erano canzoni americane, canzoni country. Da
giovane ho iniziato a suonare l’ukulele, la chitarra hawaiana, poi subito dopo
ho preso una chitarra normale, che ho ancora. Si parla di 60 anni fa. Ora non
sono molto in forma, perché suono poco o niente. Per suonare e cantare ti devi
allenare, altrimenti perdi la voce e anche la tecnica della chitarra. Nella
trasmissione “A tambur battente” ho suonato e cantato per quell’occasione,
ma erano dieci anni che non prendevo in mano la chitarra, quindi avevo perso il
95 per 100 dell’abilità nel muovere le dita. Era più per piacere, non ero un
professionista.
Un domani come vorrebbe essere ricordato?
Come uno che ha lasciato qualche cosa nel
basket italiano. Ricordo la squadra di Milano,
di Bologna, ma anche del Cile … Dan Peterson ha lasciato qualcosa, ci
ha dato qualcosa di indimenticabile. Ma anche in America, non solo in Italia. In
America ho avuto dei riconoscimenti che mi hanno fatto molto piacere, perché
vuol dire che il mio lavoro è stato riconosciuto ed apprezzato. Questa è stata
la più grande soddisfazione in assoluto.