Dino Meneghin (ex cestista e dirigente sportivo)           Milano 15 ottobre 2024

                                        Intervista di Gianfranco Gramola

 

Dino Meneghin al Festival dello Sport di Trento (foto di Gianfranco Gramola)

Dino Meneghin è nato ad Alano di Piave (Belluno) il 18 gennaio 1950. La sua carriera nella Serie A1 italiana, è iniziata all’età di sedici anni e terminata a quarantaquattro ed è un esempio di longevità agonistica, che lo ha portato addirittura a giocare contro suo figlio Andrea in una partita ufficiale di campionato. Nel campionato italiano ha giocato per Pallacanestro Varese (1966-1981), Olimpia Milano (1981-1990, 1993-1994) e Pallacanestro Trieste (1990-1993), totalizzando 836 partite e segnando 8.580 punti. Ha partecipato a 13 finali di Coppa dei Campioni, vincendone 7. A queste vanno aggiunte 2 Coppe delle Coppe, 1 Coppa Korać e 4 Coppe Intercontinentali. A livello nazionale ha vinto 12 scudetti e 6 Coppe Italia. Con la nazionale italiana ha partecipato a 4 Olimpiadi (medaglia d’argento a Mosca 1980) ed ha vinto una medaglia d’oro e due di bronzo ai campionati europei. Con la maglia della nazionale italiana è sceso in campo 272 volte e ha realizzato 2845 punti. Dal 2004 collabora anche con SKY Sport nella redazione basket. Nel settembre 2008 è stato nominato dalla Giunta Nazionale del CONI commissario straordinario della Federazione Italiana Pallacanestro in seguito alle dimissioni di Fausto Maifredi da presidente. Successivamente ha accettato di candidarsi alla presidenza della FIP e il 7 febbraio 2009 è stato eletto Presidente della Federazione Italiana Pallacanestro. Ha ricoperto l’incarico fino al gennaio 2013. Nel dicembre 2016 è stato nominato da Gianni Petrucci presidente onorario della FIP. Nel 1991 la rivista Giganti del Basket lo ha eletto più grande giocatore europeo di tutti i tempi. Il 5 settembre 2003 è diventato il primo giocatore italiano a entrare nel Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, il maggiore riconoscimento alla carriera che un giocatore di pallacanestro possa ricevere. In assoluto, è il secondo italiano inserito nella Hall of Fame (il primo, nel 1994, fu Cesare Rubini, il quale, pur avendo un passato da giocatore, ottenne il riconoscimento in qualità di allenatore). Meneghin fa anche parte della FIBA Hall of Fame e dell’Italia Basket Hall of Fame. È stato inoltre il primo italiano ad essere scelto dalla NBA: nel 1970 fu chiamato all’11º giro (182º assoluto) dagli Atlanta Hawks, ma non giocò mai nel campionato professionistico statunitense. Nel 2008 Dino Meneghin ha ricevuto in premio dal Comune di Alano di Piave le chiavi della città, con la motivazione di aver fatto grande Alano nel mondo con la sua abilità. Nel maggio 2015, una targa a lui dedicata fu inserita nella Walk of Fame dello sport italiano a Roma, riservata agli ex-atleti italiani che si sono distinti in campo internazionale.

Ha detto:

- Io sono innamorato del gioco organizzato, quando ti muovi come un’orchestra e tutti toccano il pallone tutti si sentono più vivi.

- Se potessi tornare indietro, coglierei l’opportunità della NBA. E giocherei meglio una partitaccia: finale di Coppa Campioni a Grenoble, 1983, persa da noi dell’Olimpia Milano contro Cantù. Giocai malissimo.

- Milano e Varese sono società che hanno costruito non solo giocatori, ma soprattutto  uomini. A far la differenza era la squadra e questo esaltava ancora di più i tifosi.

- Rispetto ad altre nazioni esprimiamo meno ragazzi di altezza e mezzi tecnici notevoli rispetto al passato. Un motivo è che, di fronte a numeri limitati, la pallavolo rispetto ai miei tempi ci porta via alcuni fisici che altrimenti sarebbero stati indirizzati al basket.

- Il mio grazie va a tante persone che mi hanno aiutato e supportato durante il mio cammino, a partire dalla mia famiglia che negli anni sessanta trasferendosi a Varese per motivi lavorativi di mio padre mi ha permesso di vivere nella citta numero uno a livello cestistico.

- Non ho mai allenato perché non ne sono capace. Gestire gli allenamenti e l’aspetto lavorativo della settimana non è mai stato un problema, ma durante la partita a me manca proprio il timing perché io vivo le gare con gli occhi del tifoso senza prestare attenzione alle varianti tattiche in corso d’opera.

Curiosità

- Nel 2011, è uscita la sua prima autobiografia, dal titolo “Passi da gigante” (scritto con Flavio Vanetti) il cui ricavato è stato destinato per opere benefiche.

- La compagnia aerea Ita Airways ha battezzato un aereo della flotta con il suo nome.

- Nel 2023 è uscito il film documentario di Samuele Rossi “DINO MENEGHIN Storia di una leggenda”.

Intervista

Ho letto che hai iniziato con lo sport facendo nuoto. Come sei arrivato alla pallacanestro?

Ho iniziato con l’atletica leggera, facevo peso e disco a livello scolastico. Poi sono arrivato alla pallacanestro perché sono andato a vedere una partita di basket tra scuole, e l’allenatore di una di queste scuole era Nicola Messina che era anche l’allenatore delle giovanili. Lui ha visto che ero più alto degli altri, mi ha fatto correre su e giù per il campo per vedere come mi muovevo e mi ha detto: “Vieni domani che cominciamo ad allenarci”. Quindi ho cominciato così, per caso.

I tuoi genitori che futuro avevano in mente per te?

Si parla degli inizi anni ’60 e io avevo 13 anni. I miei volevano che io e mio fratello studiassimo e non c’era nessun progetto sulla mia attività sportiva di nessun tipo per quel periodo. Non era come adesso che un genitore programma quando un figlio ha 6 anni che lo porta in giro a fare pallavolo, nuoto, pallacanestro, ecc… Ai miei tempi avveniva tutto un po’ per caso, cosa che è successo a me. In casa non c’era nessuna velleità, nessun progetto, è avvenuto tutto così, molto naturalmente.

Dan Peterson ti ha definito “La locomotiva”. Altri nomignoli?

Ad un certo punto della mia carriera mi hanno chiamato super Dino. Erano gli anni ’70 e ricordo solo super Dino e la locomotiva di Dan Paterson.

Del basket di adesso cosa ti piace e viceversa?

Mi piace la velocità e la tecnica dei giocatori. Non mi piace questa ricerca sistematica del tiro da tre punti. C’è solo il gioco di uno contro uno e sui raddoppi poi si passa la palla. Non mi piace quando il playmaker viene giù e palleggia e gli altri quattro giocatori negli angoli. Questo palleggia per 20 secondi e poi va uno contro uno e viene raddoppiato, quindi passa la palla fuori o si butta dentro. E’ un gioco troppo statico, a me piace di più un gioco tipo orchestra sinfonica, dove tutti i giocatori si muovono, tutti toccano il pallone, scambi di gioco da una parte all’altra del campo, quindi più corale come gioco. 

Come mai il basket, come la boxe, sono così poco seguiti dalle televisioni? Esiste solo il calcio, il tennis, la pallavolo e d’inverno lo sci?

E’ una strategia della Rai. Per fortuna che ci sono i canali privati come Sky e le televisioni locali, ecc … Mediaset va sugli sport che sono più seguiti, quindi calcio, automobilismo, ciclismo. Il tennis tira molto perché c’ è Sinner vince, ma prima non è che facevano vedere tanto tennis. La Rai va sul calcio, ciclismo, motociclismo, automobilismo. Da un paio di anni hanno preso la pallavolo femminile e maschile. Come ripeto, sono strategie da parte della Rai di prediligere certi sport e  non altri come la pallacanestro.

Il giocatore più forte con cui hai giocato?

Questa è dura, perché io ho avuto la fortuna di giocare con tanti giocatori fortissimi sia a Milano, a Varese che a Trieste, quindi è difficile dire un giocatore solo. A Varese forse Bob Morse perché aveva un tiro pazzesco. Un grande giocatore, soprattutto un giocatore continuo. Lui faceva delle partite stupende. A Milano sicuramente Bob McAdoo, anche lui è un ex Nba. Lui era qui a spiegare la pallacanestro a noi tutti.

Cosa insegna lo sport?

Lo sport insegna una via, insegna a trovare quali sono le tue passioni. Trovi la tua passione dopo di che ti applichi e lavori sul tuo talento, lavori giorno per giorno per vedere i miglioramenti e i miglioramenti ti danno poi più coraggio per andare avanti. Lo sport insegna anche a non abbatterti alle prime difficoltà, per esempio se un ragazzo va a scuola e prende un brutto voto non è che pianta lì la scuola, ma studia di più sui libri per migliorare. La pallacanestro in genere ti abitua proprio a questo, a lottare per risultati migliori e a non scoraggiarsi davanti alle difficoltà, piccole o grandi che siano. Insegna l’educazione, il rispetto delle regole, il rispetto degli anziani. Per anziani intendo gli allenatori, i giocatori migliori con più esperienza e che ti danno consigli su come migliorare. Uno sport di squadra ti insegna a vivere in una specie di comunità, quindi diritti e doveri e rispettare i propri spazi e quelli degli altri e il rispetto delle persone.

Tuo figlio Andrea lo vedi come il tuo erede sportivo o ci sono altri Dino Meneghin?

Andrea era un giocatore diverso da me. Io ero centro mentre lui ha sempre giocato play o guardia, per cui un gioco completamente diverso. Onestamente devo dirti che lui tecnicamente era superiore a me perché lui continuava a giocare in cinque ruoli diversi. Io invece giocavo più sotto canestro o forse ogni tanto mi spostavo in alto sulla lunetta, sull’ala. Giocatori che mi piacciono tantissimo è Luca Merli, quello che l’anno scorso giocava a Milano, adesso purtroppo è andato a giocare in una squadra straniera. Lui mi piace moltissimo perché è un giocatore completo, molto tecnico, poteva marcare un esterno o un centro, grande giocatore di squadra, sa passare bene la palla, ha un buon tiro quindi è un giocatore estremamente completo. 

La critica che ti ha fatto molto male? Che ti ha dato più fastidio?

Forse nel penultimo anno che stavo al Varese dopo diverse partite in cui giocavo male, onestamente non riuscivo più a capire cosa fare per migliorare. L’allenatore ha detto che oramai io ero solo un nome, che non potevo più dare niente alla squadra e questo mi aveva ferito un pochettino. Però anche quello l’ho superato.  

Per i tifosi sei e sarai sempre un mito, un esempio. Ti senti addosso questa responsabilità?

Onestamente no. Diciamo che l’unica responsabilità che mi sentivo prima di tutto era per il lavoro che facevo, nel senso che io volevo finire la giornata soddisfatto del lavoro ottenuto. Mi sentivo responsabile in effetti verso i miei compagni di squadra, nel senso che io volevo sempre dare il 100 per 100 in modo di contribuire al risultato e non deludere i miei compagni. Poi responsabilità sicuramente verso il mio allenatore, perché mi aveva scelto e verso la società che chiaramente aveva scelto me invece di altri giocatori e da quel punto di vista lì avevo una spinta in più per non deluderli.

Oltre al basket segui altri sport?

Mi piace moltissimo l’atletica leggera, quindi aspetto che avvengano i campionati mondiali ed europei che fanno vedere in televisione o le olimpiadi. Mi piacciono tutte le discipline, dal peso, il disco, il salto in alto, corse, tutto. quindi dopo il basket, il mio sport preferito è l’atletica leggera.

Quale sportivo ti piace dell’atletica?

Io ho vissuto per anni nel mito di Pietro Mennea, di Sara Simeone, di Franco Arese, personaggi che hanno fatto la storia dell’atletica. Adesso mi piace molto Filippo Tortu che è un velocista e il saltatore in alto Gianmarco Tamberi perché si vede che  lo fanno con grande passione e grande professionalità. Hanno ottenuto dei risultati straordinari e quindi sono di grande esempio per i giovani. 

Tre qualità di cui vai fiero?

Sono molto orgoglioso, nel senso che voglio essere sempre soddisfatto di quello che ho fatto. Onesto e simpatico.

Hai mai dedicato una vittoria a tua moglie?

Nei vari campionati e coppe dei campioni inevitabilmente anche se non lo scrivevano sui giornali o non lo dicevo, sicuramente lo dedicavo alla mia famiglia.

Ad un giovane che si avvicina al basket che consigli vorresti dare?

Di prendere tutto con grande passione e di capire se sceglie il basket per divertirsi, per passare il tempo oppure per diventare un giocatore di serie A. Se sceglie la prima, va bene qualsiasi cosa, può saltare anche qualche allenamento. Se sceglie di fare le cose seriamente allora deve applicarsi ogni giorno su quello che è l’allenamento, seguire i consigli dell’allenatore, guardare i giocatori più bravi in televisione e cercare di imitarli sul campo ed entrare in palestra e dimenticare l’orologio, per cui non aver paura della fatica, non aver paura dei sacrifici e non aver paura delle rinunce che deve fare per diventare un buon giocatore.

Hai ricevuto parecchi riconoscimenti. Ce n’è uno a cui tieni in maniera particolare?

Sicuramente l’entrata nella Hall of Fame americana.