Eleonora Danco (attrice, drammaturga e regista)    Roma 31.3.2023

                                   Intervista di Gianfranco Gramola

“Mi interessa molto scrivere testi con un suono d’impatto e mi piace utilizzare il dialetto, perché un dialetto parla per immagini e a me piace scrivere per immagini”

Eleonora Danco è un'attrice, drammaturga, regista teatrale e regista cinematografica.  Per il suo film d'esordio, N-Capace, è stata candidata al David di Donatello per il miglior regista esordiente, al Nastro d'argento al miglior regista esordiente e al Globo d'oro alla miglior opera prima. Ha ricevuto due menzioni speciali della giuria per miglior film e miglior cast d'insieme al Torino Film Festival, il Ciak d'oro "Bello & invisibile" e il premio Film della critica marzo 2015 del Sindacato critici cinematografici italiani. Nel 1998 esordisce come produttrice, autrice e interprete dello spettacolo teatrale Ragazze al muro. Nel 2000, lo spettacolo Nessuno ci guarda vince il festival di Casalbuttano. In seguito scrive, produce, dirige e interpreta spettacoli per il Teatro Stabile di Napoli (Ero purissima), l'Ambra Jovinelli (Me vojo sarva'), il Piccolo Eliseo (La giornata infinita), il Teatro India (dEVERSIVO). Nel 2014 viene distribuito il suo primo lungometraggio dal titolo N-Capace, prodotto da Angelo Barbagallo e Rai Cinema.

Intervista

Dal 4 al 7 aprile sei al teatro Vascello. Mi racconti di cosa parla il tuo spettacolo “Ragazze al muro”?

E’ uno spettacolo che parla di due ragazze  alla fermata dell’autobus, un autobus che alla fine perderanno. E’ un testo che ho scritto 26 anni fa, però non ho dovuto cambiare una virgola e questa è una cosa che mi rende molto orgogliosa e sono  contenta. E’ un testo che ho scritto in uno slang romano, è stato il mio primo testo, il mio primo spettacolo e la mia prima regia che portai in scena appunto 26 anni fa, che  fu un grande successo che non ho più ripreso. Ho deciso di riportarlo in scena perché è uno spettacolo che parla ancora tanto perché tratta la periferia in maniera universale.  

Ho letto che hai coinvolto anche tuo marito Marco nella scelta delle musiche.

E’ vero, lui ha scelto le tracce musicali ma non le ha create lui. Lui le ha solo scelte come fa da tanti anni in tutti i miei spettacoli. Più che altro c’è questa giovane attrice Beatrice Bartoni, che ho scelto, perché il testo ha due personaggi, lei ha fatto alcuni seminari con me, adesso è al Centro Sperimentale di Cinematografia, è un’allieva del Centro e ho scelto lei per stare con me in scena. E’ molto interessante lavorare con i giovani, per me è molto importante. E’ un testo che lavora sul linguaggio ed è molto interessante perché io ho lavorato per immagini, è un dialetto romano ruvido, non quello cinematografico o televisivo, un romanesco grezzo con un impatto molto divertente, perché era uno spettacolo volutamente comico. Poi come tutti i miei lavori, ha un sapore tragicomico, è pieno di ritmi, di battute, perché la protagonista è una ragazza matta, chiamata nel quartiere 10 di denari. A Roma, quando si gioca a carte, il 10 di denari viene chiamata la matta. E quindi io vengo chiamata il 10 di denari, la matta, e incontro questa ragazza poverina che sta aspettando l’autobus in una fermata sperduta, con una grande radio, diciamo con questo elemento anni ’90, da cui senti della musica. L’attesa è solo uno stratagemma, la fermata dell’autobus è simbolica. Lì si  incontrano queste due persone e questa ragazza ci porta nel suo mondo. Quindi nel mondo della fantasia e di come vede lei le cose. La cosa commovente è che sono due persone che non fanno nulla, non sanno niente di niente.  Addirittura confonderanno Aretha Franklin con Laura Pausini. Loro non sanno nulla, sono due persone di una ingenuità unica e questa è la cosa che lo rende tragicomico e contemporaneo. Siamo tanto avanti con i mezzi di comunicazione, ma anche tanto indietro in realtà, con l’atteggiamento delle persone che sono alla fine abbandonate in alcune periferie. E poi la cosa divertente è anche il rapporto con i ritmi. C’è poco e niente in scena, eppure è un testo che mantiene una certa freschezza. Parte di questo spettacolo, parte di questo personaggio della ragazza matta, io l’avevo seminato in vari miei lavori negli anni, però questa è la versione completa, versione che da 23 anni non porto in scena, ed è stato recentemente pubblicato dalla casa editrice Giulio Perrone Editore con il titolo “Tempi morti”, che è la seconda pubblicazione che faccio, l’altra “Ero purissima” l’ho pubblicata con la Minimum Fax, dove ci sono dentro tanti miei testi, anche inediti, tra cui anche questo. E poi all’epoca venne pubblicato dalla rivista Siae, Società italiana autori ed editori. Quindi per me è stato un grande piacere, è un divertimento, una gioia tornare al Vascello con questo spettacolo, che ha segnato il mio debutto e ancora parla alle persone e si può portare in scena. Non l’avrei mai detto, quando l’ho scritto non ci pensavo proprio, non avrei mai pensato che dopo l’avrei riportato in scena dopo tanti anni. E’ incredibile per me e poi il Vascello è un teatro che mi piace moltissimo, un teatro storico, romano. 

Com’è nata la passione per il teatro, per la recitazione? Hai artisti in famiglia?

Mia nonna involontariamente era un’artista perché era completamente folle. Mio padre era un architetto, che stava anche nel mio film “Incapace” e che purtroppo non c’è più. Mia madre era una professoressa di disegno delle scuole medie. Non lo so com’è nata questa passione per la recitazione, diciamo che mio padre mi portava spesso sui cantieri quando ero piccola e mi affascinavano molto questi cantieri. Secondo me li vedevo un po’ come dei teatri, con le impalcature, questo rapporto di costruire le cose, è assurdo ma è così. E’ stata una mia fantasia. Alle elementari ricordo che stavo scrivendo una cosa alla lavagna e sono caduta perché avevo inciampato e tutta la classe si è messa a ridere. Io invece di pensare al male che mi ero fatta, sentendo quelle risate rimbombare dentro, ho pensato che era bello, che tutti ridevano per me, e che in qualche modo era una forma di potere. E pensavo tra di me “Che figata” e lì ho capito che era una forma di comunicazione. Era una bambina, però ho avuto questa sensazione nitidissima. Poi, quando vivevo a Terracina, c’era questo palco che si usava per le kermesse estive e io l’inverno ci andavo sopra e andavo avanti e indietro con gli amici che mi guardavano e mi piaceva molto questa cosa. E da lì ho deciso di fare l’attrice.

Ho letto che hai fatto la scuola di Gigi Proietti e hai frequentato la compagnia di Vittorio Gassman. Un tuo ricordo di questi due mostri sacri del teatro e del cinema italiano?

La scuola di Proietti l’ho fatta che ero giovanissima e avevamo degli insegnanti molto bravi.  Era una scuola finanziata dalla Regione Lazio, quindi veramente fatta con tutti i crismi. Ho avuto come insegnanti Ingrid Thulin, Rossella Falk, Alvaro Piccardi, Leda Lojodice, una  maestra di danza pazzesca. Avevamo degli insegnanti molto bravi e di altissimo livello. Poi non ho seguito più le tracce del giro di Proietti, perché ho fatto la scuola e basta e mi sentivo diversa di quel tipo di comicità, anche se Proietti era un bravissimo insegnante. Le scuole comunque servono a capire anche quello che non ti interessa. Mi servì molto anche perché Proietti era un maestro e poi anche per come era strutturata la scuola. Poi però non feci molte cose in teatro, feci uno spettacolo con Vittorio Gassman, una sostituzione, dove c’era anche il figlio Alessandro giovanissimo, come lo ero io e Vittorio era incredibile. Era uno spettacolo che era già collaudato, quindi non è che feci le prove, feci una sostituzione davanti a tantissime persone, poi continuai la tournée. Quelle sono state le mie uniche esperienze con il teatro degli altri e con gli altri, poi ho fatto altro, ho fatto l’attrice, ero molto giovane e ho capito che volevo fare un mio teatro, che amavo il teatro, ma non mi trovavo nel teatro degli altri. E così è stato, ho sempre fatto le cose mie, scritte da me.

Com’è nata l’idea di recitare in dialetto romano?

Quando è nata l’idea, 26 anni fa, mi interessava molto scrivere un testo con un suono d’impatto, mi piaceva utilizzare il dialetto, perché un dialetto parla per immagini e io volevo scrivere per immagini. Quindi ho usato il linguaggio del dialetto, in realtà, per costruire delle immagini a mia volta e perché poi i personaggi di strada, come il mio personaggio, mi affascinavano molto in quel momento.

In ordine di importanza, quanto contano il talento, la tecnica e l’istinto nel tuo lavoro?

Tutti e tre hanno una componente fondamentale. La tecnica è tutto, io faccio molti seminari e lo dico sempre anche agli attori che senza tecnica non si va da nessuna parte, perché la tecnica non è una pianificazione del lavoro, ma è una elaborazione per estenderlo dove tu vuoi, è una estensione delle tue potenzialità. Senza tecnica è come avere uno strumento molto bello, che non sai suonare. La tecnica è il potere, la gestione di quello che tu puoi avere dalle tue potenzialità e di muoverle come vuoi. E tutto la tecnica, però ci vuole anche l’istinto a quel punto e sono delle cose che si muovono insieme. Il talento che è la grazia innata che hai, di posarti sulle cose, di comprenderle con la sintesi.

Quali sono le tue ambizioni, i tuoi progetti?

Portare a termine alcuni lavori a cui tengo molto e mantenere la lucidità con le cose e mantenerle un passo avanti rispetto a me stessa. Inoltre sto preparando il mio secondo documentario-film.

Oltre alla recitazione, curi delle passioni nella vita?

Mi piace molto la danza e quando posso, studio la fisicità perché il mio è un teatro fisico. Diciamo che le cose che mi piacciono le faccio tutte con passione, anche se io sono una che fa sempre le stesse cose.

L’ambiente che ti circonda, la tua città, Roma, influisce molto sul tuo estro artistico?

Roma lo sarà sempre, perché Roma è una città così bella, meravigliosa, conflittuale, decadente, monumentale ed è una città che mi ispirerà sempre. Mi ispira molto anche il mare perché io ho vissuto anche a Terracina, quindi ho bisogno ogni tanto di vedere il mare, di stare al mare per cercare ispirazione, però non so se potrei vivere in un’altra città. Forse mi piacerebbe vivere all’estero, però Roma per me, con tutte le sue défaillance, è una bella città e mi piacciono anche i romani veri o veraci non lo so, però sembra sempre che nulla li tocchi e cercano sempre di evidenziare quel cinismo un po’ sprezzante. Non mi piace il romanesco, ma il romano. Anche solo vedere le colonne mi inebria.  Roma è un po’ la mia città, è la città che desideravo fin da piccola, perché ci venivo a trovare mia nonna. Però Roma è una città piena di contraddizioni e diciamo che una bella “zampata” per abbatterla, gliel’hanno data in questi ultimi anni.