Flavio Giupponi (ex ciclista e dirigente sportivo)    Bergamo 20.10.2025

                              Intervista di Gianfranco Gramola

“Ho scritto il libro “Ho vinto un giro (quasi)” affinché i miei figli possano prendere degli spunti, perché non importa diventare per forza dei campioni per ottenere successo, ma nella vita se sei una persona con degli obiettivi e ti impegni, i risultati arrivano e ti premiano”

Flavio Giupponi è nato a Bergamo il 9 maggio 1964. Passista e scalatore, si mise in luce già da dilettante, con il G.S. Novartiplast di Cogliate, conquistando il Giro della Valle d'Aosta e la Settimana Lombarda del 1984 e il Giro delle Regioni del 1985. Passato professionista nel settembre 1985 con la casacca della Del Tongo-Colnago diretta da Pietro Algeri, riuscì a classificarsi quinto al Giro d'Italia 1987; l'anno seguente, al Giro 1988, migliorò il risultato precedente chiudendo quarto:[1] in quelle due edizioni risultò peraltro il primo tra gli italiani nella generale. Collezionò tre vittorie da professionista, la più importante delle quali è la quattordicesima tappa del Giro d'Italia 1989, da Misurina a Corvara in Badia. Durante la stessa edizione della corsa rosa ebbe modo anche di raggiungere il secondo posto della classifica generale finale, alle spalle soltanto del francese Laurent Fignon. Fu quello un risultato che però non riuscì a confermare nel corso degli anni successivi. Nella massima categoria ottenne anche due significativi terzi posti al Campionato italiano ed al Gran Premio Città di Camaiore del 1990, anno questo in cui vinse anche il Giro dell'Appennino, mentre fu secondo nella Milano-Torino del 1987. Nel 2024 ha scritto il libro “Ho vinto un giro (quasi)”.

Intervista

Mi racconti com’è nata la passione per la biciletta? Avevi qualche sportivo in famiglia?

No, nessun  sportivo in famiglia. La passione è nata casualmente perché da piccolino si giocava con le biciclette facendo varie gare con gli amici. Avevo una bicicletta talmente scassata che perdevo sempre. A Bergamo il 13  dicembre Santa Lucia passa per fare i regali, allora mio padre e mia madre per Santa Lucia mi portarono da Cicli Maffioletti, al paese dove abitavo, per comprare una bicicletta nuova. Da lì ho iniziato a correre, stava nascendo anche una nuova società sportiva lo Sporting Club Almè, mi sono iscritto e da lì è partito tutto.

Con quali ciclisti di riferimento sei cresciuto? Chi sono stati i tuoi miti?

Diciamo che quando ero piccolino ovviamente il mio mito era Felice Gimondi che era il personaggio bergamasco di spicco e quindi diciamo che sono cresciuto con questo idolo. Poi piano piano sono cresciuto con Saronni, Moser che erano dei grandi personaggi e ho corso insieme con loro, quindi erano i miei personaggi di riferimento perché erano i più quotati. Anche se comunque non mi dispiaceva Baronchelli e Visentini, due corridori che mi sono sempre piaciuti.

I tuoi genitori che futuro avevano in mente per te?

Sicuramente loro avevano in mente di farmi lavorare, farmi trovare un posto di lavoro. però la mia fortuna è stata sicuramente quando i miei genitori hanno incontrato Santini, quello del maglificio sportivo, e Rossi che allora era suo socio della società sportiva. I miei genitori, visto che nasceva questa società sportiva nuova, la Rossi e Santini juniores, gli hanno parlato di me, della mia passione per il ciclismo e che ero disponibile ad entrare in squadra. Da lì si è aperto non dico uno sparti acque ma entrando in una squadra nuova, diciamo che si è aperta un’occasione per mettermi in evidenza a livello nazionale. Le bicilette erano della marca Rossin e il proprietario era Garbelli il quale aveva una squadra di dilettanti, la Novartiplast di Cogliate e da lì ci sono stati dei passaggi sempre con squadre importanti dove comunque mi hanno dato le basi per poter poi passare professionista.

L’impresa a cui sei molto legato?

Sicuramente l’impresa più importante è stata la tappa di Corvara che ho vinto. Quella è l’impresa a cui sono più legato ma c’è da dire anche il giro dell’Appennino che ho vinto dopo più di cento chilometri di fuga, di cui una quarantina in solitaria. Però la tappa più bella, più importante a cui sono molto legato è stata quella di Corvara al  giro d’Italia dell’89.

Come sportivo seguivi una dieta particolare?

Sicuramente oggi sono più attenti all’alimentazione, una volta eravamo attenti a certi alimenti ma non eravamo così attenti alle carenze di carboidrati e proteine. Certamente facevamo una dieta di attenzione, non mangiare certi alimenti o comunque mantenere un certo peso, però non si era così esasperati come oggi. Allora era un po’ più in funzione delle sensazioni e quello che ha dato un po’ un cambio all’allenamento che ho anche raccontato nel mio libro, è stato Michele Ferrari, nonostante che tutti dicono che era un personaggio che dopava tutti, reputo invece che come medico e preparatore è stato uno dei migliori di allora. Perché effettivamente era uno che cercava di alimentarti e che cercava di migliorare il mezzo meccanico, cercava di darti una preparazione molto specifica, cioè sia quando dovevi correre in bicicletta che non in bicicletta, quindi nel periodo di riposo affinché le tue prestazioni potessero migliorare. Con il  record dell’ora di Moser grazie a tutta l’equipe e tutti quelli che erano all’interno, fra questi anche Michele Ferrari, si è iniziato un percorso invece di preparazione specifica e un modo di allenarsi diverso.

Che idea ti sei fatto del caso Pantani?

Del caso Pantani ognuno si è fatto un’idea. Posso dire che vedere la sua morte in quel modo è un qualcosa che dispiace molto e non fa bene non solo allo sport ma anche alle persone normali. Poi sapere cosa sia successo veramente, non lo sapremo mai. Poi c’è chi lo difende e chi lo può accusare ma davanti ad una tragedia del genere sicuramente si può solo che stringersi al dolore dei genitori e alle persone attorno e non commentare quello che è successo. Purtroppo sono cose brutte nello sport, ma ci sono anche nella vita. Io dico sempre molte volte che gli atleti quando prendono notorietà e poi di colpo per qualsiasi problematica la perdono, o quando smettono l’attività sportiva, si perdono. Penso a Pantani quando vinceva aveva non so quante migliaia di persone fuori dalla finestra e non poteva neanche uscire a prendersi un caffè senza essere chiamato dai fan, poi quando ti capita una problematica, tutti ti evitano come se quasi avessi la peste. Come dicevo prima, gli atleti quando smettono bisogna aiutarli a riuscire ad inserirsi nel mondo reale, perché quando corri in bicicletta non vivi in un mondo reale, ma vivi nel mondo del ciclismo, poi quando smetti entri nel mondo reale e lì non è facile reinserirsi e reinventarsi.

Io e Flavio Giupponi al Festival dello Sport di Trento

Hai scritto il libro “Ho vinto un giro (quasi)”. Scriverlo per te è stato uno sfogo, un’urgenza personale o perché volevi far conoscere la tua storia ai giovani?

Inizialmente era nato così, a 60 anni, come se dovessi fare un libretto con tutta la mia carriera e anche qualcosa di personale, poi in realtà quando si scrive qualcosa, bisogna avere le idee chiare su quello che scrivi, ho meditato molto e l’ho scritto per diversi motivi. Un motivo è soprattutto per ringraziare i miei genitori e tutti i miei  direttori sportivi delle varie società che molte volte non vengono mai riconosciuti, perché sono comunque degli educatori e se io oggi sono quello che sono diventato e che sono oggi, lo devo soprattutto a loro. La seconda cosa è per i miei figli affinché possano conoscermi meglio e che possano prendere degli spunti che nella vita ovviamente non importa diventare per forza dei campioni per ottenere successo, ma nella vita e nello sport se sei una persona con degli obiettivi, uno che non molla mai, se sei sempre corretto e ti impegni, i risultati non solo nel mondo sportivo ma anche nel mondo lavorativo, arrivano e ti premiano e questo è il messaggio che volevo trasferire. Ma questo non solo ai miei figli ma a tutti i giovani, cioè che è importante fare dello sport e farlo in modo corretto e con il massimo impegno. Io poi nella vita, oltre allo sport, ho trasmesso lo stesso entusiasmo, il metodo di quando correvo e sono riuscito ad ottenere anche delle soddisfazioni a livello lavorativo. Poi l’altro messaggio è, come dicevo prima, che molto atleti quando smettono, si perdono e non riescono più a trovare un loro equilibrio o comunque trovare un loro spazio, una seconda vita diciamo, per dimostrare che lo sport ha insegnato loro a non mollare mai, a non arrendersi. Come ho letto su whatsApp “Nella vita non conta quante volte cadi, ma conta quante volte ti rialzi”, perché nello sport sono più le volte che cadi ma si deve trovare la forza per rialzarsi. E così anche nella vita. Con questo libro volevo trasferire un messaggio a quei sportivi che hanno difficoltà a reintegrarsi nel mondo lavorativo, nel mondo della vita normale. Il mio libro è impregnato sulla mia vita sportiva perché è quella più interessante, però c’è una parte che interessa la mia famiglia, il mio lavoro, le vicissitudini pesanti che ho avuto appena finito di correre e la mia rinascita come persona nel mondo lavorativo e famigliare.

Ora di cosa ti occupi?

Da un po’ di tempo mi occupo di implantologia, quindi lavoro per un’azienda che produce e distribuisce in Italia e nel mondo prodotti implantari, quelle finte radici che vanno nell’osso quando si perdono i denti e tutto quello che serve per poter ricostruire mascelle e mandibole e anche un po’ il viso. Quindi nel settore odontoiatrico, sempre nella chirurgia.