Lia
Beltrami (scrittrice, regista)
Trento 29.4.2023
Intervista di Gianfranco
Gramola
“L’al di là me lo immagino come una
corolla di torri dolomitiche, un immenso prato e gente in armonia”
Lia Giovanazzi, in arte Lia Beltrami, è nata
a Trento nel 1967. Dall'inizio della sua attività di regista nel 1992, ha
realizzato oltre trenta documentari, focalizzandosi specialmente in Africa. È
la fondatrice, nel 1997, del Religion Today Film Festival, festival
internazionale di cinema e dialogo interreligioso che dirigerà fino al 2008.
Dal 2008 al 2013 è assessore alla solidarietà internazionale e convivenza
della Provincia Autonoma di Trento. Nel 2009 fonda il gruppo Donne di Fede per
la Pace (Women of Faith for Peace) in cui donne provenienti dalla Terra santa e
negli anni successivi da diverse altre parti del mondo, di diverse religioni e
con posizioni importanti nelle proprie comunità, si impegnano per percorsi di
pace a partire dalla donna. Per tale progetto, nel 2017 le viene assegnato il
Leone d'oro per la Pace. Nel 2014 fonda la casa di produzione Aurora Vision. Nel
2015 ha curato la direzione artistica delle pareti espositive del padiglione
della Santa Sede a Expo 2015, premiato con la medaglia d’oro del Bureau
International des Expositions con il primo premio tra i padiglioni sotto i 2.000
metri quadrati che meglio hanno sviluppato il tema dell’esposizione. Per il
Pontificio consiglio "Cor Unum" realizza una serie di cortometraggi
montati da Simona Paggi. Ha curato la mostra fotografica "Emotions to
generate change -- Emozioni per generare il cambiamento" con Asaf Ud Daula,
esposta lungo il Colonnato del Bernini e in seguito al World Economic Forum nel
2022. È autrice di sei libri: Arte del Picnic (2021) e Libertà, Incontro,
Avventura (2017), editi da Edizioni del Faro - Gruppo Editoriale Tangram,
Zanzara e Labbradoro (2016), edito da Versante Sud,, Sulle vie della speranza
(2013) e Donne della Risurrezione (2009), editi da Paoline, A ritroso verso la
luce (2006), edito da Ancora.
Intervista
Oggi al Trento Film Festival hai
incontrato la dottoressa Alganesh. Soddisfatta della chiacchierata?
Si, mi dispiace però che i discorsi poi
vadano sempre a finire sulla politica internazionale, mentre Alganesh è una
donna di cuore, di passione perché alle volte guardando sempre ai massimi
sistemi, che si è giusto, però deresponsabilizza, cioè non ci si pone più la
domanda: “Io che cosa posso fare?”. Quella parte mi dispiace, mentre sono
soddisfattissima di Alganesh, perché lei ha questa carica interiore di
compassione che è proprio una guida per tutti noi. Ci mette il cuore e non si
tira indietro di fronte a niente. E’ un esempio per tutti.
So che stai preparando una mostra a Roma.
Ne vuoi parlare?
Martedì 2 maggio si inaugurerà
ufficialmente la mostra “Women’s cry”, il grido delle donne e fa parte di
un progetto più ampio che ho avviato due anni fa insieme a mia figlia Marianna
che si chiama “Emotions to generate change”, emozioni per generare il
cambiamento. E’ un progetto culturale artistico che vuole promuovere fotografi
di posti più svantaggiati del pianeta o artisti sconosciuti che creano lavori
d’impatto, lavori che possono generare un cambiamento sociale. Questa mostra
è composta da 26 scatti di 8 fotografi e le fotografie sono state scattate in
varie parti del mondo, foto di donne che hanno delle storie molto diverse. Si va
dalle pescatrice del Vietnam alle suore del Togo, alle rifugiate del campo
profughi di Alganesh. La mostra, come dicevo prima, sarà inaugurata il 2 maggio
e sarà aperta nel colonnato di sinistra di
piazza San Pietro. Sono molto orgogliosa e soddisfatta perché la mostra
dopo San Pietro in giugno sarà a Cannes, in Francia e nel mese di luglio sarà
in Ruanda, poi al festival di Venezia e infine negli Sati Uniti.
Dopo la mostra, quali sono i tuoi
progetti?
Oltre alla mostra, sto lavorando a due
documentari e il 13 maggio ci sarà l’uscita del documentario “Invisibiles”,
sulle donne africane invisibili e poi in lavorazione ho quello sulle donne
indigene della foreste tropicali, quindi Amazzonia, Congo e Borneo. Abbiamo già
girato le donne in Amazzonia e le donne in Congo e in luglio andrò in Borneo
per raccontare la realtà delle donne indigene della foresta del Borneo.
Nei tuoi progetti hai coinvolto anche tuo
marito Alberto?
Ho coinvolto anche mio marito, lavoriamo
insieme. Lui cura il montaggio, le musiche e io sono quella che viaggia di più.
Lui sta in Trentino e lavora più da casa diciamo. E’ importante lavorare e
collaborare insieme, perché io sono sempre in viaggio. Penso ai primi due mesi
di quest’anno che sono stata in Amazzonia, in Brasile, in Moldavia e al
confine con l’Ucraina, poi Iran e Togo e il tutto in due mesi.
Quindi quando vuoi andare in vacanza, stai
a casa.
Si, a casa mia, in Trentino.
Ho letto che ti occupi di molte realtà.
Com’è nata l’idea del tuo “Religion Today Film Festival”?
L’idea del Religion Today nasce
all’interno del festival della montagna di Trento, ero nel direttivo, 25 anni
fa, e mi rendevo conto che tantissimi film parlavano di montagna e parlavano
anche di spiritualità. Il cammino dell’uomo diventava il cammino dell’uomo
verso Dio e la ricerca spirituale. Io e mio marito abbiamo avuto due bambine e
mi rendevo conto che non potevo vivere in Africa o in situazioni più estreme e
mi sono chiesta cosa potevamo
realizzare qua, in Trentino. L’urgenza è quella di promuovere il dialogo
interreligioso. Ci sono forze che spingono al conflitto, il conflitto di civiltà,
c’era una dottrina imperante che ha portato fino all’11 settembre e noi
invece siamo cresciuti pensando di promuovere l’incontro, il dialogo e la
convivenza e così nasce il Religion Today.
La tua era una famiglia religiosa? Di
fede?
La nonna era la matriarca di famiglia, quindi
il rosario, la messa alle 6 di mattina, le orazioni. Ha passato
la guerra con 8 figli ma era un mondo di valori forti. Dai miei genitori
ho ereditato più che altro la misura della curiosità, vengo da due genitori
viaggiatori. A 7 anni ho fatto la prima traversata del Sahara con la Land Rover
e papà faceva anche progetti di sviluppo in Senegal e
andavamo con una grande dimensione dell’avventura, ma non come turisti,
ma per dare ascolto alla cultura di mondi diversi. Mia mamma fino all’ultimo
anno della sua vita, ha sempre viaggiato con lo zaino in spalla. Partiva e ci
diceva: “Venite a prendermi all’aeroporto fra 3 settimane”, non c’erano
i cellulari e speravamo sempre di vederla uscire dal gate dell’aeroporto.
A proposito di fede, come ti immagini
l’al di là?
Come una corolla di torri dolomitiche, un
immenso prato e gente in armonia.
Cosa ne pensi di papa Wojtyla, di papa
Ratzinger e di papa Francesco?
Ho conosciuto
Giovanni Paolo II, ho conosciuto papa Ratzinger e conosco papa Francesco.
Ognuno con caratteri e qualità diverse. Giovanni Paolo II ce l’ho nel cuore.
Qualche settimana prima di morire, era già molto malato, solo a stargli vicino
ti trasmetteva un grande calore. Lui amava lo sport, quindi lo sci, il
nuoto, le camminate e lo sport era una dimensione fondamentale per lui e amava
l’arte. Lui era un grandissimo viaggiatore ed è stato il primo dei grandi
papi viaggiatori. E scriveva molto. Anch’io amo lo sport, l’arte e i viaggi
e queste dimensioni le ho trovate riflesse. Papa Ratzinger, un uomo timido, ma
di uno spessore culturale incredibile. Le volte che l’ho incontrato lui sempre
si ricordava della volta prima. Quindi un attenzione estrema alla persona che
aveva davanti. Papa Francesco è come il miele. Tutte le sue catechesi, le sue
messe, anche durante il periodo del covid, tutte le sue parole sono state di
grande incoraggiamento. Lui ha una visione storica del mondo, quindi riesce ad
incidere in ogni passaggio e per me che sono cristiana cattolica, in lui
riconosco anche un maestro spirituale. Il suo cammino di pedagogia spirituale
forse è meno sottolineato perché si va più sull’aspetto sociale di papa
Francesco, che è fondamentale, ma il suo cammino spirituale per me è come
l’ago di una bussola.
Com’è nata l’idea di raccontare la
vita dei campi profughi? E’ stata un’esigenza o un lavoro?
Mi sono sempre ritrovata dentro nella storia
dei profughi, non so dirti se è un caso della vita, perché ho sempre voluto
capire cosa c’è dietro. Un giorno ero in Zimbabwe con Carlo Spagnolli, un
grandissimo medico missionario, una figura straordinaria, ed eravamo con la
nostra jeep e vediamo da lontano una fila di persone tutta pelle e ossa che
camminavano. Ci siamo detti: “Chi sono? Dove vanno?”. Erano somali, c’era
la carestia, c’era la guerra e dalla Somalia arrivavano a piedi nello
Zimbabwe, quindi migliaia di chilometri, perché sapevano che c’era un campo
profughi dove avrebbero potuto trovare qualcosa. Ormai erano spettri e non so
neanche se sono arrivati a destinazione. Questa cosa mi ha segnato così tanto
da dire “proviamo a smontare la scatola e andiamo dietro” e così sono
arrivata nei vari campi profughi vivendo un po’ quell’esperienza, ho vissuto
i primi camp profughi nel 2001 in Eritrea dove le tende erano degli straccetti
di stoffa, dove mezzo milione di persone vivevano in condizioni assurde. Poi ho
fatto i campi profughi di Mosul dell’Isis in Iraq nel 2014. Le donne che
vivevano in queste tende, con un pezzo di pane per tutta la tenda, la prima cosa
che hanno fatto è stata quella di offrirmi il loro pane.
Tu hai girato anche in realtà di guerra.
Hai mai rischiato di morire?
Girando in zone di guerra il rischio
effettivamente c’è. Io cerco sempre di viaggiare con persone fidate o con
gente del luogo. Il rischio l’ho vissuto una volta con un direttore della
fotografia che si è fatto prendere dall’agitazione e voleva riprendere una
certa situazione e quasi saltavamo su una grossa mina ma io l’ho preso e
l’ho buttato indietro e per fortuna non siamo saltati in aria tutti.
Un’altra volta ci hanno fermato, era un esercito allo sbando, quindi persone
con disagio psichiatrico e per fortuna che avevamo con noi quei 100 dollari per
i casi di emergenza, glieli diedi così si tranquillizzarono, però non si sa
mai se c’è qualcuno del tuo gruppo che si agita e infatti tre anni fa, al
confine con la Siria, un confine difficile, una persona che viaggiava con me
voleva andare sempre più avanti. E questi sono i rischi quando si vuole
superare certi limiti.
Ho letto che hai ricevuto tantissimi premi
e riconoscimenti. Ce n’è uno a cui tieni in modo particolare?
Il Leone d’Oro per la Pace di Venezia che
ho ricevuto nel 2017. Quello senz’altro perché è legato al cammino di
“Donne di fede per la pace”. Questo gruppo che ho fatto partire 13 anni fa
in Israele e Palestina, tra donne leader di 5 diverse religioni. Per me il
cinema è sempre un veicolo per il cambiamento sociale, non fine a se stesso e
mi rendevo conto che attraverso il cinema, con il Religion Today, non riuscivamo
ad andare oltre, non riuscivamo a fare altro per questa terra. Allora mi sono
detta: “Partiamo e lavoriamo sulle donne”. Insieme ad una produttrice
cinematografica israeliana abbiamo iniziato a cercare donne leader nelle proprie
comunità, perché abbiamo pensato che una donna, nella sua comunità chiusa, cambia
tutta la comunità. E abbiamo iniziato a lavorare con questo gruppo e da donne
nemiche sono diventare donne amiche, sorelle e in ogni momento dove cresce la
tensione, loro intervengono. Questo gruppo poi si è un po’ diffuso anche in
giro per il mondo, ispirando altri gruppi, senza essere di pensiero, ma un
cammino per diventare sorelle e fratelli. Quindi quel premio di Venezia ce
l’ho impresso nel cuore, anche perché a ritirarlo in un contesto molto
elegante, sono venute due persone che porto nel cuore. Un vecchio missionario
che è morto quest’inverno, padre Italo Piffer di 90 anni, rientrato
dall’Uganda, lavorava nei campi profughi di quel paese e
Evelyn Anita Stokek Hayford, ambasciatrice del Ghana, regina locale, che
ha voluto essere con me. Quindi il premio ritirato dalle mani di queste due
persone, valeva doppio per me.
Com’è il tuo rapporto con il Trentino,
la tua regione?
Mi sento proprio una donna di montagna,
Gianfranco. Posso girare il mondo proprio perché sono così radicata alla
montagna. Ho un passato forte di arrampicata, per cui fin dalla nascita le mie
figlie arrampicano sia sulle Dolomiti che in palestra. Dopo quando ho
deliberatamente smesso, tra una figlia e l’altra, ho fatto una via in palestra
con Sergio Martini ed è stato molto bello. Poi ho messo via le scarpette e ho
detto adesso basta. Ricordo che le prime volte che andavo in montagna sentivo il
rumore dei chiodi che schiodavano, i moschettoni e mi venivano le lacrime agli
occhi talmente amavo la montagna. Quella è una parte, poi c’è quella delle
tradizioni, della cultura, lo stare con le amiche nelle malghe e poi la cucina
che per me è fondamentale. Anche i crauti, solo a nominarli sento subito un
qualcosa che mi collega al Trentino. La polenta, io non riesco a comprarla già
fatta. Ho la fornella a legna, accendo il fuoco, metto su il paiolo e dopo
un’ora ho una polenta che parla. Sono nella confraternita del “tonco de
pontesèl” e seguo quando posso Stefano Grassi e tutte le sue confraternite. A
proposito di polenta, un giorno ero in un posto dove c’erano 10 mila profughi
ugandesi e c’era un problema con i serpenti e c’era un missionario di Moena,
un uomo incredibile, mi ha organizzato un pranzo che mi vengono le lacrime agli
occhi solo a ricordarlo. Mi ha fatto la polenta, fatta bene, e come contorno una
carne che sembrava coniglio, proprio come mi faceva mia nonna. Quella carne era
di pitone, perché non c’erano conigli.
Come mai tutti questi pitoni?
Perché da un giorno all’altro avevano
chiuso i campi profughi e le 10 mila persone le avevano mandate nei villaggi e
quindi c’erano tanti pitoni e bisognava ripulire i campi dai serpenti,
altrimenti i pitoni mangiavano i bambini. Questi pitoni così cucinati,
assomigliavano tantissimo al coniglio ed erano veramente buoni.
Nel Trentino in questi giorni si parla
molto dell’orso che ha ucciso quel runner. Cosa ne pensi delle polemiche
suscitate?
Io credo che i movimenti animalisti, come
tutti gli “ismi”, vedi estremismi, siano essi stessi pericolosi, perché
sono problemi che vanno ragionati con grande lucidità. L’orso è stato
introdotto in modo artificiale, non in modo naturale, con orsi non autoctoni,
quindi con un tipo di orsi non adatti al territorio trentino, perché ci sono
orsi che camminano più a lunghe distanze e altri a distanze più corte. I
nostri, quelli di Luigi Fantoma, erano orsi di corta distanza. Io credo che il
problema vada affrontato chiamando esperti e dando la parola agli esperti e
trovando delle soluzioni, perché urlando intorno ai problemi, non se ne fa
assolutamente niente. Una convivenza uomo – ambiente ci vuole, perché noi
dobbiamo poter vivere la montagna con il rispetto dovuto, però anche con la
sicurezza. Io sono stata a Yellowstone, sono stata nei parchi americani dove ci
sono gli orsi e dove c’è un tipo di convivenza. Qui bisogna trovare una
soluzione con degli esperti, non con gli opinionisti. Non ho una mia opinione
specifica, ma dico solo che abbiamo bisogno di seri esperti che si mettano
intorno al problema, un problema gravissimo, cercando di risolverlo con lucidità
e di fare un piano affinché non ci ritroviamo di nuovo di fronte a queste
situazioni.
Io e Lia Beltrami al Trento Film Festival
In Trentino hai fatto l’assessore alle
pari opportunità. E’ vero che hai ricevuto delle minacce?
E’ un capitolo molto doloroso e io ne ho
sofferto moltissimo, perché per due anni mi
sono arrivate queste lettere e purtroppo delle personalità di spicco
hanno cercato di farmi passare per mitomane, cioè dicevano che le lettere me le
mandavo io. Adesso cito solo un episodio fra tutti, un episodio molto doloroso a
proposito di queste accuse fatte da persone anche con ruoli. Il giorno della
seconda lettera, io mi trovavo in rianimazione all’ospedale di Bolzano, con
mia figlia di 14 anni che stava morendo, con mio marito che era venuto
all’ospedale con 39 di febbre dall’agitazione, con mia madre che è entrata
nella stanza ed è svenuta, quindi ero da sola e avevo una responsabilità
pubblica, però per me veniva prima mia figlia ovviamente. Puoi immaginarti che
io ero là a spedirmi delle lettere? Ho chiesto a mio fratello di portarmi un
altro telefonino perché non potevo rispondere con il telefono d’ufficio e
volevo parlare solo con mio marito, mia madre e mio fratello. Dicevano: “Si fa
deviare le telefonate”. E’ proprio una storia disumana e molto
brutta anche da questo punto di vista. Le mie figlie hanno lasciato il
Trentino per questo, sono andate a vivere all’estero tutte e due. Io dico che
da un lato c’è questo mio grandissimo amore per la mia terra, per la gente di
montagna e dall’altra l’ho sofferta tantissimo e forse è anche per questo
che ho scelto di lavorare nel mondo e di venire qui in Trentino solo per
passeggiare nella mia città, fare degli incontri, però ho scelto il mondo come
mia patria e non più il Trentino.
Tornando indietro, rifaresti tutto?
E’ una domanda molto bella. Di tendenza io
mi fido sempre, forse se avessi imparato a dosare un pochino la fiducia alle
persone di cui fidarmi, forse avrei sofferto un po’ meno. Però alla fine, se
sono quella che sono oggi, è anche perché non ho rammarichi e perché credo di
avere sempre vissuto la vita profondamente fino in fondo e mi sento in una fase
dove ho così tanto da imparare, una fase dove sono finalmente anche un po’ più
libera di imparare molto di più e quindi sono pronta a nuove sfide, a nuovi
progetti, ad imparare cose nuove, a fare nuovi incontri, come quello per
organizzare la mostra.
Mi racconti com’è andata?
Per organizzare questo lavoro in San Pietro,
una mostra molto importante che fa parte di quelle cose che segnano, ho avuto
una riunione con una persona molto ai vertici, molto in alto del Vaticano. In
un’ora di riunione, vedere l’umiltà, l’attenzione, di questa persona, con
cui prendeva nota dei vari problemi, la serietà con cui mi dava risposte, il
chiedere scusa perché è arrivato un po’ in ritardo è stato molto toccante e
mi sono detta: “Quanto posso imparare, quanto?”. Tornando all’alpinismo,
io lo guardo con attenzione come mondo, però ho delle profonde amicizie e
ricordi degli anni ‘80 di quello che era il climbing a quei tempi, Manolo,
Jerry Moffat e quelle persone con cui ho vissuto tempi bellissimi in quegli
anni. Non sono una che dice “Che bello il passato”, però avevo intorno
persone con un’umanità straordinaria. Adesso quando ti trovi con degli
arrampicatori, c’è il manager che si occupa delle comunicazioni, ci sono gli
sponsor, i social, però la montagna non è uno sport come gli altri, è un
qualcosa di più, quindi ci vuole più autenticità, più verità e tutto questo
mondo che gli gira attorno, mi spaventa un po’.
C’è troppa gente intorno ad un
personaggio.
Si e tornando al discorso sull’umiltà dei
personaggi, ho un ricordo molto bello. Nel ’95 stavamo facendo le riprese sul
Concilio di Trento, in Duomo e avevamo un attore medio e siccome la sua scena
aveva un’ora di ritardo, aveva fatto dei capricci e si era lamentato. Nel film
c’era anche Massimo Girotti, un attore che
aveva lavorato con Luchino Visconti, con Michelangelo Antonioni,
con Roberto Rossellini. Io avevo 25 anni, lui 84 e mi diceva: “Mi dica
lei come devo tenere le mani, come mi devo mettere. Lei è la regista e io devo
fare quello che mi dice”. Sono rimasta a bocca aperta.
Girando il mondo, c’è stato un paese
che ti ha rapito il cuore e non vedi l’ora di
tornarci?
E’ una domanda importante. Credo che in
varie fasi della vita ci sia stato o ci sia il paese che si ama. L’Etiopia per
tanti anni è stato proprio il paese che mi ha attirato e mi ha portata via. Ci
sono andata 28 volte in Etiopia. Dopo
è stata l’epoca più del Medio Oriente, quindi la Siria che mi ha rapito il
cuore. Di recente ho scoperto l’Amazzonia e le sue popolazioni che mai avrei
pensato, perché io sono più per i deserti, per il secco, invece l’incontro
con l’Amazzonia è stato folgorante. Mi ha colpito e non vedo l’ora di
tornarci, ma c’è anche l’Asia che per me è una scoperta nuova perché è
un mondo particolare.