Nicola Guaglianone (sceneggiatore cinema e TV)         Roma 21.4.2020

                      Intervista di Gianfranco Gramola

Le mie ambizioni sono quelle di non perdere mai la voglia e la curiosità di raccontare storie. Scrivere per me è quasi un “Xanax”

Per contatti, la sua pagina instagram è www.instagram.com/nicola.guaglianone 

Nicola Guaglianone, romano, allievo di Leo Benvenuti, nel 1999 si trasferisce a Los Angeles dove frequenta seminari di sceneggiatura e struttura narrativa. Al suo rientro in Italia,  inizia a collaborare con le maggiori case di produzione televisive. Nel 2004 firma il soggetto e la sceneggiatura del cortometraggio Il produttore con il quale ha inizio il sodalizio professionale con il regista Gabriele Mainetti. Insieme realizzano i corti Basette, finalista ai David di Donatello 2009, e Tiger Boy, vincitore del Nastri d'argento 2013, finalista ai David di Donatello 2012 e in shortlist ai premi Oscar 2014 per il miglior cortometraggio, senza però aggiudicarsi la nomination. Nel 2015 scrive il soggetto e insieme a Menotti  la sceneggiatura del suo primo lungometraggio, Lo chiamavano Jeeg Robot, che ottiene un buon successo di pubblico e critica e la vittoria di sette David di Donatello: Guaglianone ottiene una candidatura per la migliore sceneggiatura, la terza dopo quella ricevuta l'anno precedente per il corto Due piedi sinistri, premiato successivamente con il Globo d'oro. Nel 2017 è tra gli sceneggiatori della commedia L'ora legale del duo comico Ficarra e Picone. Quello stesso anno vince il David di Donatello firmando il soggetto (autore unico) e la sceneggiatura del film Indivisibili. Sempre nello stesso anno scrive insieme a Menotti e Carlo Verdone il soggetto e la sceneggiatura di Benedetta follia, diretto dallo stesso Verdone. Con Luca Miniero firma il soggetto e la sceneggiatura di Sono tornato, prodotto da Indiana Production. Nello stesso anno lavora al soggetto di serie e alla sceneggiatura di due episodi di Suburra - La serie. Nel 2018, Guaglianone riceve il Premio Flaiano per la sceneggiatura.

Cinema  

Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) – Indivisibili (2016) - L'ora legale (2017) - Benedetta follia (2018) - Sono tornato (2018) - In viaggio con Adele (2018) - La Befana vien di notte (2018) - Non ci resta che il crimine (2019) - Il primo Natale  (2019) - Freaks Out (2020)

Televisione

Un anno a primavera (2005) - 7 vite  -serie TV (2006-2009) - Anna e i cinque - serie TV (2010-2011) - Suburra - La serie - serie TV, 2 episodi (2017)

Cortometraggi

Il produttore (2004) - Ultima spiaggia (2005) - Amici all'italiana (2006) – Basette  (2008) - Tiger Boy (2012) - Due piedi sinistri (2015) – Ningyo (2016) - Hand in the Cap (2019)

Intervista

Il tuo maestro è stato Leo Benvenuti. Come lo hai conosciuto e mi racconti brevemente i tuoi inizi?

Leo Benvenuti l’ho conosciuto perché ho comprato l’agenda dei 100 anni del cinema e io volevo cominciare a scrivere, ma non sapevo assolutamente niente di sceneggiatura. Nell’agenda c’era scritto ANAC,  Associazione Nazionale Autori Cinematografici. Chiamai e mi dissero che c’era Leo Benvenuti che ogni sera faceva dei seminari con tantissimi ragazzi e ragazze e io volevo frequentarlo, anche perché era gratis. Bastava sottoporre un lavoro a Leo. Poi da lì ho cominciato a seguire questi seminari e a seguire questo grande uomo, ossia la persona più generosa che io abbia mai conosciuto, insieme ad Alessandro Haber, altro amico mio. Poi ho iniziato a scrivere i miei primi cortometraggi e feci il servizio civile a tor Bella Monaca, in un centro di relazioni sociali e lì decisi di raccontare quello che avevo vissuto, l’esperienza di 10 mesi con minori sotto custodia penale. Dopo andai a vivere a Los Angeles per studiare un po’ la struttura drammaturgica. Ho poi avuto la fortuna che la prima cosa che ho scritto sono riuscito a venderla. Successivamente mi fu chiesto di scrivere un film e da lì ho fatto una gavetta incredibile, partita dalla soap opera Vivere, dove scrivevo i dialoghi e poi tantissima televisione.

Quali sono le doti di un buon sceneggiatore? Il talento?

Con il talento ci si nasce. Il sceneggiatore è un mestiere che può essere insegnato e può anche essere imparato. Credo che forse la dote migliore sia la capacità e lo sguardo con cui guardi il mondo. Secondo me non è facile riuscire ad averlo, però bisognerebbe avere un’osservazione ironica della realtà, di quello che succede intorno, che succede nelle nostre vite e in quelle degli altri. Sempre con grande rispetto e grande amore. Bisogna sempre amare quelli che sono i difetti e le fragilità. L’anno scorso ho fatto un corso alla Louiss e ai miei alunni ho consigliato di prendere le proprie fragilità e le proprie paure e fare in modo che diventino il loro super potere. Quindi la cosa più importante per un sceneggiatore è guardare il mondo con ironia e riuscire anche a rendere le proprie paure e fragilità dei super poteri, che forse rende unici in qualcosa che va sfidato.

Da anni si parla della crisi del cinema. Non mi sembra che sia messo male. Che ne pensi?

Ma questo si è sempre detto. Io credo invece che negli ultimi anni sia uscita una nuova generazione di registi, sceneggiatori, attori e produttori. Quella generazione nata negli anni ’70 che si porta dietro un bagaglio di immagini e anche di internazionalità, che riesce a raccontare delle storie a livello universale. Oggi se scriviamo una serie, parliamo a 180 paesi, perché vengono distribuiti dalle piattaforme.

Com’è stato lavorare con Carlo Verdone?

Io ho iniziato come dicevo prima con Leo Benvenuti e poi come sceneggiatore di Carlo Verdone. Quindi puoi immaginarti l’emozione quando la mattina mi squilla il telefono, rispondo e sento: “Buongiorno, sono Carlo Verdone”. Per me è stata un’emozione unica, perché Carlo è sempre stato un mito fin dall’infanzia. Passavamo le notti con gli amici a raccontarci a memoria le battute dei suoi film. Lavorare con Verdone? Quello che ho trovato è una persona molto generosa e soprattutto una persona disposta al dialogo, disposta a confrontarsi. Con lui ho tirato fuori tutto quello che poteva essere parte del mio mondo, il mondo di Roberto Menotti, che ha scritto il film “Benedetta follia” insieme a me e a Verdone. Di Verdone ho apprezzato molto la grande umiltà, che punta ad ascoltare, a confrontarsi e anche a cambiare idea. Quella è una delle cose più belle, specialmente se si lavora in coppia. Cambiare idea per una visione che non è la propria. Mi succede spesso con Menotti, ci si può anche scontrare in vari momenti, però nel momento in cui lui riesce a convincermi che la sua opinione è meglio della mia, io sono altro che contento. Mi vanto della mia libertà artistica, perché mi ha arricchito.

Durante la promozione di “Benedetta follia”, Ilenia Pastorelli ha detto che gli fai degli scherzi telefonici. E’ vero?

(risata) Si, ogni tanto si. Una sera feci un video a Ilenia con il telefonino. In un video messaggio, tutto in romanesco, diceva a Marco Masini: “Ci mettiamo insieme, poi io ti lascio, tu vai in depressione  e poi scrivi delle belle canzoni”. Quando ci siamo trovati in una stanza io, Carlo Verdone, Roberto Menotti, Aurelio e Luigi De Laurentiis per parlare di chi potesse interpretare il ruolo di Luna in “Benedetta follia”, ho fatto vedere a loro il video di Ilenia dicendo: “Secondo me il personaggio giusto è lei”. Quindi da quel breve video a Marco Masini, la Pastorelli ha avuto la parte ed è diventata la co-protagonista nel film di Verdone.  

Nicola Guaglianone con Carlo Verdone

Qual è l’orario più fertile per la scrittura?

Tempo fa scrivevo di notte, poi dipende, perché io ho tutti i miei rituali per prepararmi alla scrittura, quindi l’ordine, devo mettere a posto la libreria, ecc … Posso stare anche un giorno intero a ciondolare per casa, sistemando le varie cose, poi mi arriva quell’idea che mi sblocca. Perché scrivere è basato l’80% sull’attesa.

Una volta che hai finito la sceneggiatura, segui la lavorazione del film o il tuo lavoro è finito?

Dipende. Ovviamente io cerco sempre di rimanere nel mio ruolo di sceneggiatore. Per esempio con Gabriele Mainetti abbiamo lavorato a stretto contatto sia in “Lo chiamavano Jeeg Robot” che in “Freaks Out”. Ci confrontiamo su quello che sono i volti, sui casting, sui costumi e su tante altre cose. Comunque è importante avere anche l’opinione di chi ha inventato quei personaggi e li ha pensati per la prima volta. Se c’è un attore che magari piace di più al regista, allora prendo il personaggio e lo cucio addosso all’attore, come fosse un vestito.

L’ambiente che ti circonda, la tua città, può essere fonte di ispirazione per le tue sceneggiature?

Certo che lo è, Roma poi, figurati. Anche se qualsiasi ambiente è fonte di ispirazione. Raccontiamo il mondo che ci circonda per forza di cose. Poi una metropoli come Roma, con tutte le sincrasie, le mille cose che ha, che puoi trovarci, penso che ci siano tante cose da raccontare.   

Carlo Verdone in un’intervista ha detto che lui va al bar e ascolta i vicini di tavolino per trovare ispirazione, idee e qualche battuta da inserire nei suoi film …

Carlo è un maestro, è un uomo che riesce a filmare la realtà con uno sguardo ironico. Ci riesce e c’è riuscito per 40 anni e continua a raccontare quelle che sono le tipologie, le caratteristiche e la mitomania dell’italiano medio.

Quali sono le tue ambizioni?

Sono quelle di vivere una vita tranquilla e di continuare a lavorare. Sono riuscito a realizzare le mie scelte, alle volte anche faticose. Le mie ambizioni sono quelle di non perdere mai la voglia e la curiosità di raccontare storie, che comunque sembrerà retorica, ma alla fine non sarà mai tempo perso se hai almeno una storia da scrivere e da raccontare, almeno per me. Scrivere è quasi un “Xanax” per me.

Alcune domande su Roma, la tua città. In che zona sei cresciuto?

Io sono cresciuto a villa Bonelli, sopra la Magliana e mio padre lavorava all’aeroporto di Roma e per lui era molto comodo andare a Fiumicino la mattina. Mi ricordo la marana, i tappeti di cerini per terra, c’era l’incubo dell’eroina, che stava devastando tutta quella generazione post pasoliniana. Però mi ricordo un’infanzia molto felice, spensierata. Ricordo che dopo pranzo si scendeva giù, a giocare a pallone nel prato sotto casa, con gli amici. Si viveva molto il quartiere e a 10 anni c’era il campetto di calcio, a 14-15 anni la comitiva, le ragazze e il motorino. Poi verso i 16 anni con un amico siamo andati al Piper e scoprimmo il mondo di Roma nord.

C’è un angolo di Roma a cui sei molto legato?

Sono molto affezionato a piazza dell’Orologio, perché c’ho vissuto lì per 12 anni. E’ vicino a via del Governo Vecchio, a piazza Navona,  è una casa che prendemmo io e mio fratello tantissimi anni fa, nel 1997 ed è una casa dove ci siamo sentiti “famiglia”.

I mali di Roma che ti danno più fastidio?

Il traffico mi da molto fastidio, poi alla fermata dell’autobus l’idea che la gente vuol salire prima di farti scendere. L’approssimazione non la sopporto e non sopporto il “Lo famo dopo”.

La cucina romana ti piace?

Eccome. Ho scritto un articolo per il Messaggero dove racconto tutti i ristoranti e le trattorie della mia zona.

Da anni si parla di eliminare il mercato domenicale di porta Portese. Cosa ne pensi?

Io sono molto legato a porta Portese. Mio padre ci andava tutte le domeniche e spesso ci andavamo insieme. Non conosco a fondo le problematiche, però questo famoso mercato fa parte della città e non si può eliminare.

Un consiglio alla sindaca di Roma?

Non vorrei mai fare il sindaco di Roma (risata).