Pino Calabrese (attore)
Portici (Napoli) 14.1.2023
Intervista di Gianfranco
Gramola
“Il mio mestiere, quello dell’attore, non
è neanche di portare in giro Goldoni, Moliere o Shakespeare, dei quali
francamente abbiamo le tasche piene, ma dire qualcosa che non sia
necessariamente un messaggio, che però incida”
Pino Calabrese è nato a Portici il 6 ottobre
1955. Inizia la sua carriera artistica nel 1972, lavorando dapprima in teatro
con attori e registi quali Massimo Troisi, Lello Arena, Enzo De Caro, Franca
Valeri, Gigi Proietti e molti altri, passando dal cabaret al teatro drammatico,
dai musical alle commedie comiche, dal teatro cantato ai monologhi a sfondo
sociale e politico. Nel cinema debutta nel 1983 con Valerio Zecca, lavorando
successivamente con registi come Pappi Corsicato, Giuseppe Tornatore, Pupi
Avati, Mario Martone e Paolo Sorrentino. In televisione ha preso parte a
produzioni come R.I.S. - Delitti imperfetti, Incantesimo, Un medico in famiglia,
Gente di mare, Distretto di polizia e I bastardi di Pizzofalcone. Da diversi
anni si dedica al teatro civile, portando in scena "L'ombra di Aldo
Moro" e "Tortora, una storia semplice", spettacoli in forma di
reading di Patrizio J. Macci. Per la sua interpretazione nel film Respiri del
2018, Pino Calabrese è stato premiato al Sorrento Film Festival 2019.
Intervista
Mi racconti com’è nata la passione
per la recitazione? Hai artisti in famiglia?
Nessun artista in famiglia, o meglio avevo
mio nonno che ogni tanti si dilettava a raccontare aneddoti della sua vita in
maniera assolutamente teatrale e gli piaceva dire delle poesie che imparava a
memoria e niente altro. Un mio lontano zio mi ha
raccontato che c’era sua madre che faceva la ballerina di varietà agli
inizi del ‘900. La mia passione per il teatro inizia alla tenera età di 12/13
anni. Mia sorella, insieme a quello che poi diventò mio cognato, frequentava
una associazione culturale qui a Portici, dove sono nato, e pensarono di fare
uno spettacolo teatrale. Invece di Eduardo De Filippo pensarono a “Morti senza
tomba” di Jean–Paul Sartre, che parla del collaborazionismo francese, però
serviva il fratellino piccolo della donna di un partigiano che sarebbe morto in
scena, non c’erano bambini all’epoca e quindi mia sorella e mio cognato
pensarono di chiederlo a me. Questa cosa mi colse di sorpresa perché il teatro
era una cosa che non avevo mai considerato, anche perché a 12 anni si hanno ben
altre cose in testa. Riuscì
effettivamente benissimo e io me ne accorsi dal fatto che c’erano delle
anziane signore in sala commosse che continuavano a
piangere, per cui evidentemente le avevo colpite. Questa cosa mi entusiasmò a
tal punto che da allora ho continuato a fare delle piccole cose teatrali e sono
diventato professionista a 17 anni, professionista nel senso che venivo pagato
per le cose che facevo. Questi sono stati i miei inizi.
Ho letto che hai iniziato a recitare
accanto a dei personaggi di grande spessore artistico. Un tuo ricordo di Massimo
Troisi?
Con Massimo il primo incontro è stato a
scuola, perché noi eravamo compagni di classe. Io avevo appena finito le scuole
medie e mi iscrissi all’Istituto Tecnico per Geometri e lo trovai lì già dal
primo anno, ma lui più grande di me di due anni e mezzo aveva già fatto
esperimenti al Liceo Scientifico, al magistrale e come ultima chance si era
riservato l’Istituto Tecnico per Geometri. Per cui capitammo nella stessa
classe e all’epoca fu simpatia e amore a prima vista, ci riconoscemmo subito
come fratelli dal punto di vista intellettuale, per quanto possa essere
intellettuale l’incontro fra due adolescenti, però partì insieme lo stesso
interesse per il teatro, tanto che mettemmo in piedi un teatro a San Giorgio a
Cremano, che era un garage dismesso e lo facemmo diventare un piccolo teatrino.
Quindi cominciammo a frequentarci e a non studiare, ma a cercare di portare
acqua al nostro mulino culturale teatrale. Cominciammo facendo il teatro delle
marionette e passammo alla commedia dell’arte nuda e cruda e si arrivava la
domenica per fare lo spettacolo per i bambini del rione e ci assegnavamo le
parti prese da un canovaccio, come dire, senza battute. “Tu fai Pulcinella, tu
fai Colombina, tu fai Pantalone” e poi andavamo un po’ a braccio. Questa
cosa ebbe un certo successo, soprattutto perché le madri ci mollavano i loro
bambini la domenica mattina e andavano a fare altre cose. La cosa funzionò,
tant’è che pensammo di mettere su un primo grande gruppo di cabaret.
All’epoca il cabaret funzionava alla grande, c’erano svariati gruppi ed
erano anche i primi anni di contestazione. Noi facemmo anche un cabaret molto
politico e riuscimmo a fare una programmazione in questo piccolo teatro e
venivano addirittura persone dalla provincia per vederci. Poi per una serie di
ragioni io lasciai questo gruppo perché fui chiamato da altre parti per fare
altre cose, ma un anno dopo ci rincontrammo perché io pensai di mettere in
piedi quella che poi diventò “La smorfia” ed eravamo appunto io, Massimo
Troisi, Lello Arena ed Enzo De Caro, ma all’epoca ci chiamavamo “I cab –
inetti”, un nomignolo un po’ equivoco. Poi entrammo sotto l’ala protettiva
del giornalista Renato Ribò che a quei tempi andava per la maggiore e ci disse:
“No, mi sembra un po’ troppo goliardico questo nome. Da oggi vi chiamerete I
Saraceni”. Poi le nostre strade si sono divise per svariati motivi.
Gigi Proietti?
L’ho conosciuto nel 1995 perché l’attore
Gianfelice Imparato insieme all’attrice Marioletta Bideri, che adesso si è
trasformata in produttrice, misero in piedi una commedia dove si parlava molto
di Lega e di separatismo italiano da parte appunto della Lega, che all’epoca
voleva dividere l’Italia in due. In questo spettacolo che si chiamava “Casa
di frontiera” c’ero io, Gianfelice Imparato, Marioletta Bideri e Sandra
Collodel e Gigi Proietti ne curò la regia. Il mio primo incontro con Gigi
Proietti fu al ristorante perché ci presentarono lì e ci fu subito una bella
empatia.
Franca Valeri?
Lei l’ho conosciuta nel 1996. Io in quel
periodo mi ero trasferito a Milano, dove mi interessai con delle persone di fare
una società di produzione e post produzione televisiva. Nel frattempo non
volevo abbandonare il mio lavoro d’attore e un giorno
mi chiamò la mia agenzia con la quale non avevo perso i contatti, per
fare delle puntate di “Norma e Felice” e lì ho conosciuto Franca Valeri e
Gino Bramieri. Lei era una persona assolutamente simpatica, con la quale si
lavorava molto bene, tant’è vero che lei ha lavorato fino alla tenera età di
100 anni.
Quali sono ora le tue ambizioni?
Ormai, arrivato all’età di 67 anni,
ambizioni non ne ho, anche se poi chi fa questo mestiere, immagina sempre che
prima o poi dietro l’angolo ci sia qualcuno che ti propone una situazione
importante che poi non è neanche così difficile. Così come è il teatro, il
cinema e la televisione italiana, adesso veramente da un momento all’altro ti
può capitare qualsiasi cosa. Probabilmente adesso guardando in faccia la realtà
e guardando, come diceva Gassman, il
mio avvenire dietro le spalle, mi rendo conto di non avere mai avuto il
“phisique de role” del primo attore, del protagonista. Questo però non mi
ha impedito di avere una carriera soddisfacente. In fondo quando io ho iniziato,
ho sempre pensato di lasciare sempre una porticina aperta che chissà può
sempre succedere di diventare particolarmente famoso, anche se già adesso c’è
qualcuno che mi riconosce. Poi c’è il fatto di fare questo lavoro per il puro
piacere di fare qualcosa che ti piace fare, senza avere particolari velleità.
Io voglio vivere di questo lavoro e fortunatamente continuo a farlo.
Hai portato in scena due drammi, quello su
Aldo Moro e l’altro su Enzo Tortora. Com’è nata questa scelta?
La scelta non è nata da me ma dal fatto che
un giorno del 2008, fui fermato per la strada da un signore che mi disse: “Le
posso parlare? Io ho apprezzato tanto la sua partecipazione nel film di Renzo
Martinelli “Piazza delle Cinque Lune”. Io sono particolarmente interessato a
quell’epoca, a quegli agli anni ’70 e alle Brigate Rosse. Quest’anno corre
il trentesimo anniversario della strage di via Fani e ho intenzione di scrivere
un monologo e mi farebbe molto piacere che lo recitasse lei”. Da lì passammo
alla collaborazione ma questa idea è successa dieci anni dopo, nel 2018 e
quando ho debuttato, il testo si chiamava e si chiama tuttora “L’ombra di
Aldo Moro”. Dico tuttora perché continuo a portarlo in giro e il 22-23 e 24
aprile andrà in scena al teatro Tor Di Nona di Roma. Pensavamo addirittura di
farne una trilogia con il teatro civile, mettendo insieme il rapimento di Aldo
Moro, il problema giudiziario avuto da Enzo Tortora e di tutte le disgrazie
passate fino al tumore che lo portò alla morte e il terzo spettacolo verrà
presentato nella stagione teatrale 2023/2024, ha per titolo “Gli occhi di
Margherita”, un testo che parlerà di Mara Cagol che fu la moglie di Renato
Curcio. Lei è stata la prima brigatista che ebbe una vita strana, perché lei
doveva essere una novizia, di famiglia profondamente cattolica, quindi passa dal
velo del noviziato ad imbracciare il mitra, non si capisce bene. Però è quello
che è successo a questa signora della quale
vogliamo raccontare la storia e lo faremo.
Dopo una esibizione, temi più il giudizio
della critica o del pubblico?
Della critica francamente me ne frego, nel
senso che io faccio le cose soprattutto per il pubblico. Poi se la critica
storce il naso, pazienza. Io devo arrivare al pubblico, è la mia scelta. Il mio
mestiere, quello dell’attore, non è neanche di portare in giro Goldoni,
Moliere o Shakespeare, dei quali francamente abbiamo le tasche piene, ma dire
qualcosa che non sia necessariamente un messaggio, che però incida. Il dovere
di un attore in questo momento è di avere un rapporto con le generazioni
future. Noi dobbiamo lasciare qualcosa e il nostro dovere è fare questo, quindi
questo è il mio intento.
Il mondo dello spettacolo è un mondo
molto competitivo. Hai dei sassolini che vorresti levarti?
Altro che sassolini Gianfranco, direi
macigni. Però alla fine, quando scegli di fare questo lavoro, in qualche
maniera devi fare dei compromessi ma non tanto con gli altri, ma con te stesso,
perché questa è una vita di sofferenze, di sudori, di lacrime e di sangue
sparso. Però se ti piace questo lavoro, passi un po’ sopra alle cose.
Un’altra caratteristica per stare bene in questo mestiere, è quella di avere
un bel pelo sullo stomaco, perché devi passare anche sul cadavere di tua madre.
Ecco, io non ho mai voluto fare questa cosa, né su mia madre, né su quello dei
colleghi.