Tamara Lunger (scialpinista, alpinista ed esploratrice)   Cornedo all’Isarco (Bolzano)  7.8.2024

                   Intervista di Gianfranco Gramola

I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi

“Non siamo solo corpo e performance, ma dobbiamo anche avere il coraggio di fidarci e seguire il nostro intuito e il nostro istinto. Questo ci rende persone libere e ben radicate, in armonia con se stesse”

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Tamara Lunger è nata a Bolzano il 6 giugno 1986. Ha iniziato la sua attività atletico-alpina a 16 anni. Nel 2003 ha partecipato per la prima volta alla competizione Vertical Race a San Martino di Castrozza. Il 23 maggio 2010 è diventata la donna più giovane a raggiungere la vetta del Lhotse usando ossigeno supplementare. Il 26 luglio 2014 ha scalato il K2. Il 26 febbraio 2016 ha iniziato, in occasione della prima ascensione invernale del Nanga Parbat, la sua scalata dall'ultimo campo verso la vetta. Mentre i suoi compagni di cordata, ossia il bergamasco Simone Moro, il basco Alex Txikon ed il pakistano Ali Sadpara, giunsero fino alla cima di questo ottomila, Tamara Lunger ha dovuto fermarsi a 70 metri dalla cima per problemi di salute dovuti allo scarso periodo di acclimatamento che la mise in difficoltà. Nel 2020, durante un tentativo in invernale del Gasherbrum I, il suo compagno di cordata Simone Moro finì in un crepaccio a testa in giù: Tamara Lunger riuscì a salvarlo, riportando nell'azione alcune ferite alla mano.

Gare di scialpinismo

•2006 e 2008: Due volte Campionessa Italiana

•2007: Vincitrice Pierra Menta

•2008: Campionessa del Mondo (under 23)

Alpinismo d’alta quota

•2009: Island Peak (6.189 m)

•2010: La donna più giovane sul Lhotse (23 anni), con ossigeno

•2010: Cho Oyu (8.210 m), senza vetta

•2011: Khan Tengri (7.010 m)

•2012: Muztgah Ata (7.546 m)

•2012: Broad Peak (8.047 m), senza vetta

•2013: Pik Lenin (7.134 m)

•2014: K2 (8.611 m), senza ossigeno

•2015: Tenta la salita invernale del Manaslu (8163 m) con Simone Moro. Apertura di una nuova via in stile alpino sulla parete nord dell’Island Peak (6.182 m) e prima salita del Kang Lemo Central (6.100 m)

•2016: Nanga Parbat (8.126), invernale, senza vetta

•2017: Kangchenjunga (8.586m), senza vetta

Libri

Tamara Lunger, Io, gli ottomila e la felicità. I miei sogni, tra amore per la montagna e sfida con me stessa, Rizzoli, 2017

Tamara Lunger, Il richiamo del K2. La dura lezione della montagna, Rizzoli, 2021.

Intervista

Il tuo con l’alpinismo è stato un colpo di fulmine o la passione è nata pian piano?

Sono cresciuta in mezzo alla natura e quindi la natura è sempre stata importante per me. Poi, quando con la famiglia abbiamo avuto in gestione il rifugio in valle Isarco, quando avevo 12 anni, io lì mi sono proprio innamorata delle montagne e ho deciso  che volevo fare qualcosa in montagna. E sono diventata alpinista.

I tuoi genitori come hanno preso la tua scelta di fare l’alpinista?

Siccome è stata una cosa che è nata pian piano, perché prima ho fatto delle gare di sci alpinismo e per loro non era poi una cosa così drammatica, e poi anche il mio papà era uno sci alpinista e uno scalatore e quindi mi hanno sempre sostenuta in ogni mia scelta, in ogni mia decisione e mi hanno sempre detto che se questo mi rendeva felice, allora era bene che lo facessi.

Chi sono stati i tuoi alpinisti di riferimento, i tuoi idoli?

All’inizio era Gerlinde Kaltenbrunner. Lei aveva fatto il primo ottomila che aveva 23 anni, però poi ho capito che io non dovevo diventare come qualcuno, io dovevo dare il meglio di me e non voler essere come qualcun altro. Poi ovviamente la leggerezza del mio papà nelle gare di sci alpinista mi ha sempre affascinato tanto e volevo essere come lui, perché lui per me era una forza della natura e ancora lo è  perché con i suoi 60 anni è ancora super in forma.

Qual è la magia della montagna?

La magia è che lì sei costretta ad essere sola con te stessa, sei meno connessa al mondo frenetico ma sei connessa con il mondo che ti circonda, dove hai tempo per pensare ai valori, al futuro, a come risolvere i problemi che ci sono e poi la vista, il panorama. Gli ottomila, ad esempio, quando sei lassù, la disciplina è reale.

Quanto conta l’autostima per un alpinista?

Conta tanto secondo me, perché quando ti metti in testa certi limiti, hai già perso. Io non mi vedevo come donna alpinista, perché per me le donne le vedevo deboli e quindi volevo semplicemente essere una persona che va in montagna e questo mi ha permesso di andare oltre i limiti di una donna normale, per cui ho dimostrato di essere forte come un uomo. 

Oltre all’esperienza e alla preparazione, l’istinto che ruolo ha in un alpinista?

L’istinto è importante però per me è molto più importante l’intuizione, quindi in ogni momento e in quella situazione è importante capire qual è la cosa giusta da fare in quella circostanza, nella composizione della situazione attuale e questo decide anche di vita e morte. Anche l’istinto è importante perché nasce dal sistema limbico perché ti coinvolge nelle reazioni emotive. Questo, negli anni passati, nel periodo della pietra, l’uomo per distinguersi dalle bestie ha usato l’istinto di sopravvivenza per portare a casa la carne per mangiare e la pelle per ripararsi dal freddo.

Vivere la montagna crea benessere più psichico o più fisico secondo te?

Tutti e due, perché io fisicamente mi sono anche distrutta molto perché non  ascoltavo mai quello che mi diceva il mio corpo e questo mi ha fatto molto male anche mentalmente e mi ha fatto capire che bisogna sempre trovare un equilibrio in ogni cosa. Io mi sono ammazzata di allenamenti, di metri di dislivello e questo mi ha buttato giù non solo fisicamente ma soprattutto mentalmente.

Tornare senza arrivare in cima, indica un fallimento?

No, perché io lo vedevo sempre come un insegnamento, forse uno dei più preziosi, perché quando sei in cima e per arrivarci è stato facile, dici: “Ce l’ho fatta”, però quando una cosa non funziona, vai a casa e ti fai delle domande tipo: “Qual era la strada giusta, cosa potevo migliorare, cosa potevo fare meglio, cosa ha portato a questo fallimento?”. Penso che a volte il fallimento è proprio una cosa che doveva succedere per portarmi sulla strada in cui sono attualmente. E’ un processo per imparare, un insegnamento di cui farne tesoro, quindi mai niente dovrebbe essere inteso come un fallimento, anche nelle nostre teste perché è solo il nostro destino e una lezione per noi per imparare certe cose. Questa è una bellissima cosa ma solo ora riesco a vederla così.

La tua prima salita importante? (Come l’hai vissuta?)

La mia prima cima alta e importante è stata l’Island Peak in Nepal, a quota 6.189 m. nel 2009. Io lì ho patito molto il mal di testa, abbiamo dormito poco sotto la cima e io ho passato una notte molto brutta, ma in quella notte ho capito quello che volevo fare, che quella sarebbe stata la mia professione, il mio futuro. La mattina mi sono svegliata, mi sono alzata, sono uscita dalla tenda e ho visto quel panorama e lì ho capito che ero nel posto giusto, che quella era la casa dove volevo essere.

Una montagna che ti ha lasciato senza fiato?

Il K2 mi ha lasciato a bocca aperta.

L’impresa più emozionante?

Sempre il K2, d’inverno mi ha regalato delle emozioni uniche ma anche tante sberle, tanto forti e  tanto tristi. Emozioni che mi hanno segnato per sempre e mi hanno cambiato la vita.

E’ vero che sei salita sul K2 per dimenticare un fallimento sentimentale? (dettagli)

Si, nel 2014. Dopo una delusione mi sono detta: “Non me ne frega niente, vado sul K2”, anche se prima avevo paura di morire lassù. Mi sono detta: “Dai, proviamo, tanto non ho nulla da perdere”. Sono salita sul K2 e questo mi ha aiutata veramente a guarire questo mal di cuore e grazie a questo mal di cuore io ho ricominciato nuovamente il mio percorso di alpinista professionista.  

Quante volte ti sei trovata in situazioni pericolose e che cosa insegna questa consapevolezza?

Più volte. La lista è lunga e ci vuole almeno una mezz’ora per raccontarle tutte. La mia prima spedizione a Lhotse, in Nepal, dove sono quasi andata giù in un crepaccio, poi il Nanga Parbat dove ho pensato anche di morire e mi sono detta “Se non tengo duro, siamo morti io e Simone Moro”. Sono dei momenti molto intensi che ti  insegnano e ti segnano e quando vai a casa e rifletti su quello che è successo e pensi: “Ma veramente vale la pena? O è tempo perso?”  

Durante una spedizione, nei momenti di riposo e anche di sconforto, hai mai pensato: “Ma chi me l’ha fatto fare?”.

Mai, perché io quando sono entrata nell’aereo ho spento quel bottone e mi sono detta: “Adesso non lamentarti più, perché tu vai a fare quello che ami di più” e così è stato. Io ho sempre vissuto le mie esperienze in montagna dal primo all’ultimo minuto nel bene e nel male e ho provato a portare a casa il più possibile di tutto quello che ho provato in quei momenti.

Un alpinista ha detto che salire in alta quota è avvicinarsi al cielo e quindi a Dio. E’ così anche per te?

Si, è così anche per me. Io sono molto credente ed è forse difficile capire ma quando io sono andata al Nanga Parbat in inverno, dall’ultimo campo verso la cima, io ho capito molto bene che qui la “persona più vicina è Dio”, perché nonostante i miei compagni di spedizione erano a pochi metri da me, ho pensato che se mi spaccavo una gamba, nessuno di loro mi poteva aiutare e io non avrei mai chiesto a nessuno, perché ognuno lottava per la propria sopravvivenza. In quella situazione ho parlato costantemente con Dio e gli ho chiesto di proteggermi, di portarmi calore e conforto.

Ti sei mai chiesta che cosa ci spinge verso l’alto?

No, è una cosa che forse uno ha o uno non ha. Siamo tutti diversi, siamo tutti unici. Forse è un po’ l’esploratore quella persona che pensa che ci sia ancora qualcosa di meglio da esplorare dentro e fuori, che non gli basta la vita normale di tutti i giorni, una vita piatta.  

Hai diversi record. Ce n’è uno a cui tieni in modo particolare?

No, a me i record non mi interessano più. Io una volta ero sempre molto competitiva nelle gare, però era più Simone Moro che mi diceva: “Puoi essere la più giovane in quell’impresa, ecc…”. Però per me questo non era importante, io sentivo questo più come una questione di cuore e anche adesso io penso che si tratta di fare delle esperienze e questo ci arricchisce dentro e quindi è molto di più di un record. Non c’è paragone.

La paura è un elemento che fa parte dell’alpinismo?

Si, è dovrebbe essere così, perché è quel sentimento che ti fa capire che qualcosa non va, quell’intuizione che ti dice che c’è qualcosa che non quadra e che forse è meglio cambiare direzione o scendere, ma che non deve essere per forza sempre paura.   

Nell’alpinismo c’è più competizione o complicità e solidarietà?

Quando sono andata là in Nepal per la prima volta, io ho visto competizione, però anche complicità e solidarietà. Però per me la competizione in montagna non deve esserci, lo so che c’era, c’è e ci sarà sempre però per come sono fatta, io non voglio  essere lì se sento competizione perché distrugge tutta la mia armonia e tutto il mio romanticismo di andare in montagna. E’ per quello forse che non mi interessano più di tanto gli otto mila perché lì vedo tante di quelle cose che non fanno parte dei miei valori e so già che non mi farebbe felice, e che mi ruberebbe tante energie.

Le tragedie in montagna sono frutto del caso o dell’imprudenza e la poco esperienza?

Forse è anche del destino, ma anche perché la persona non ha ancora imparato ad ascoltare l’intuizione che a me ha aiutato a sopravvivere diverse volte, forse l’ego a volte troppo alto “io voglio andare là, io devo andare là, non c’è nient’ altro che conta”. A volte sicuramente c’è anche imprudenza, ma io penso che la cosa principale quando si fanno queste cose sia quelle di essere connessi con la natura e con se stessi. La somma di tutto questo è la base per essere sicuri in montagna, poi ovviamente è importante quello che sappiamo fare e la preparazione.

Negli ultimi anni secondo te è cambiato il modo di vivere la montagna?

Si, perché i social hanno portato ad una moda incredibile di vivere la montagna, poi ovviamente anche il covid ha influito. Ma la moda degli otto mila adesso mi fa più tristezza che felicità.

Com’è nata la tua amicizia e la collaborazione con Simone Moro?

Io l’ho incontrato al mio ballo di maturità, poi quella sera mi aveva promesso che mi avrebbe portato con lui in Nepal, sull’Himalaya e poi quattro anni dopo io l’ho incontrato virtualmente su facebook e gli ho scritto: “Simone quando mi porti in Nepal?” e lui: “Ok, puoi venire a settembre in una spedizione” e io ero la persona più felice del mondo. Ho imparato tutto da lui, poi le nostre strade si sono un po’ divise e ho fatto le mie esperienze, il K2 nel 2014 e da lì in poi siamo sempre andati insieme d’inverno perché io volevo fare una invernale ma lui non mi portava però forse il K2 era l’esame che dovevo fare. 

Anni fa girava la critica sulle troppe croci in cima alle montagne? Il tuo parere?

A me piace, perché la croce in cima alla montagna è sempre un collegamento con Dio, io sono credente, però questo è un po’ anche la nostra cultura. A giugno abbiamo anche la festa del fuoco e del cuore di Gesù e anche lì fanno sempre fuochi sulle creste, sulle cime e questo per me è anche cultura e tradizione e io sono del pensiero che dobbiamo vivere di più quelle tradizioni anche un po’ per far vedere la gratitudine e l’orgoglio di essere nati qua, perché io ne sono molto grata e orgogliosa di essere una altoatesina. Vedere una croce là in cima o non vederla, a me non cambia niente, però ci  tengo perché è un simbolo per me forte che vuol dire “Adesso ce l’hai fatta”.    

Quanto conta l’alimentazione in una scalata?

Ovviamente conta, ma conta molto la preparazione e l’alimentazione che tu hai tutto l’anno, una alimentazione sana, basata molto sulla verdura e uno stile di vita sano.  

Parlando di alimentazione, cosa non deve mai mancare nel tuo zaino?

Acqua, che è il primo alimento. In ogni spedizione porto con me speck, Schüttelbrot, parmigiano e Kaminwurz.

Dopo anni di alpinismo, hai dei rimpianti?

No, neanche uno. E’ stato tutto utile e mi ha portato sulla strada che dovevo percorrere, anche se a volte le sberle che mi hanno indicato la strada sono state importanti, però chi non vuole ascoltare deve sentire e io dovevo sentire un po’ di più, perché non ho ascoltato bene.   

Quali sono ora i tuoi progetti? Hai già in mente anche il terzo libro?

Sorpresa.

Cosa fai nel tempi libero? Hai delle passioni o pensi a nuove sfide con la montagna?

Il tempo libero lo uso per stare fuori, in mezzo alla natura. A me piace anche cucinare, stare con i miei amici, mi piace molto giocare a carte con la nonna, mi piace stare con i miei zii che fanno i contadini perché a volte i contadini hanno una marcia in più di tutte le altre persone e queste chiacchierate con loro per me sono di una grande qualità e di una grande filosofia.