Barbara Schiavulli (giornalista e scrittrice)
Roma 5.9.2022
Intervista di Gianfranco
Gramola
“Quello che adesso desidero è rendere
Radio Bullets sostenibile in modo tale che io non debba più lavorare per dei
giornali meinstrem”
Nata a Roma, corrispondente di guerra e
scrittrice, ha seguito i fronti caldi degli ultimi vent'anni, come Iraq e
Afghanistan, Israele, Palestina, Pakistan, Yemen, Sudan. I suoi articoli sono
apparsi, tra gli altri, su Fatto Quotidiano, Repubblica, Avvenire ed Espresso.
Ha collaborato con radio (Radio 24, Radio Rai, Radio Popolare, Radio Svizzera
Italiana) e TV (RAI, RAI News 24, Sky TG24, LA7, TV Svizzera Italiana). È
cofondatrice e condirettrice di Radio Bullets. Ha vinto numerosi premi, tra cui
il Premio Lucchetta (2007), il Premio Antonio Russo (2008), il Premio Maria
Grazia Cutuli (2010) e il Premio Enzo Baldoni (2014).
Libri
Le farfalle non muoiono in cielo ed. La
Meridiana (2005)
Guerra e Guerra, ed. Garzanti (2010)
La guerra dentro, le emozioni dei soldati
(2013)
Bulletproof Diaries, storie di una reporter
di guerra (2016)
Quando muoio, lo dico a Dio – Storie di
ordinario estremismo (2017)
Intervista
Mi racconti com’è nata la tua
passione per il giornalismo? Hai giornalisti in famiglia?
Non ho giornalisti in famiglia. Mio padre era
appassionato sicuramente di giornalismo e di lettura e mia madre, americana,
diciamo che è stata abbastanza coinvolta nell’attivismo negli anni
‘60/’70. Però la mia passione è iniziata probabilmente
leggendo e non lo so, forse un giorno andrò dallo psicologo per scoprirlo
(risata).
Con quali giornalisti di riferimento sei
cresciuta?
Mi viene in mente Martha Gellhorn, che mi
piaceva molto, sicuramente Robert Fisk che leggevo e altri giornalisti magari
minori ma che però seguivano sempre le zone di guerra. Mi piaceva molto
all’inizio Oriana Fallaci, ma poi ha preso una via che non era quella
sicuramente in cui io avrei potuto vedermi.
Come ricordi la gavetta?
Io non ho mai smesso in realtà. Nasco
freelance e morirò freelance. Ho cominciato al Gazzettino di Venezia, in
cronaca nera, che è stata sicuramente una delle scuole più importanti per fare
questo mestiere. Poi nel ‘97 mi sono trasferita a Gerusalemme dove il
conflitto israelo-palestinese è stata la mia vera scuola. Quindi raccontare i
due fronti ha fatto si che poi potessi muovermi con un po’ più di esperienza
nel resto del Medio Oriente e centro Asia, che sono le zone che seguo di più,
anche se poi mi sono anche allargata ad altri posti come possono essere Haiti,
Venezuela, la Malesia e anche qualche posto in Africa.
Cosa ti ha spinto a girare il mondo per
raccontare storie di guerra?
Intanto la passione e la curiosità verso le
persone, l’essere parte del racconto mentre la storia avviene, soprattutto
oggi direi comunque attraverso le storie raccontare
i vinti attraverso le persone e dare in qualche modo giustizia e riconoscimento
a quello che accade e il tentativo di poter essere comunque un faro acceso come
sta avvenendo per l’Afghanistan che forse è il paese che mi sta più a cuore.
Poter far si che le persone non vengano dimenticate, che l’orrore della
guerra, alla quale io sono sempre contraria,
in qualche modo non venga spenta in certi paesi, soprattutto quando il
mainstream italiano non ha nessuna intenzione di raccontarlo. E questo è il
motivo per il quale è nata Radio Bullet ( www.radiobullets.com
), una web radio con “Le notizie che non troverete
nei media italiani”.
L’istinto in un’inviata di guerra, che
ruolo ha?
L’istinto è un misto tra esperienza e la
fiducia e la conoscenza forse di sé. Io mi fido molto del mio istinto,
soprattutto perché quando incontri le persone in zone pericolose, devi
velocemente capire che tipo di persone stai incontrando. Per me conta, ma non è
prioritario, perché bisogna tenere conto di tanti fattori quando si scrive in
zone di guerra.
Da una vita racconti le guerre. C’è una
storia o dei personaggi che ti hanno colpito molto? Un episodio che ti è
rimasto impresso?
Ce ne sono tantissimi e ogni volta che io
riparto penso che nella vita ormai ho vissuto tutto e invece c’è sempre una
storia nuova. Ma quello che mi colpisce di più è la forza delle donne. Le
donne spesso vengono considerate l’elemento debole, perché la guerra
soprattutto, la subiscono. In realtà le donne non sono deboli, ma sono
vulnerabili. Non le ho mai viste mollare o perdersi, soprattutto quando hanno
dei bambini sono la cosa più forte e soprattutto sono l’eredità di una
società distrutta dalla guerra,
senza di loro non ci sarebbe più un paese.
Nei tuoi libri hai raccontato le storie
che hai vissuto. Per te scriverle è stato uno sfogo, un’urgenza personale o
un lavoro?
E’ stato sicuramente ampliare quello che è
il lavoro giornalistico, nel senso che sei molto confinato quando devi scrivere
un articolo nelle righe che hai a disposizione. Adesso forse con internet è un
pochino cambiato, però il giornale ti dava uno spazio e tu magari avevi una
storia che meritava molto di più. Quindi di conseguenza è stata un’urgenza,
soprattutto all’inizio, è stato anche un modo per poter raccontare delle cose
e dei fatti che non sarebbero mai finiti sui giornali e soprattutto io credo
molto nel riconoscimento delle persone, quindi di rendere onore alle persone che
ho incontrato.
Parlando di inviate di guerra, mi vengono
in mente Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli,
entrambe assassinate mentre svolgevano il loro mestiere. Tu hai mai visto
la morte in faccia?
Fa parte del nostro mestiere, Gianfranco. Ci
passa accanto e finché non ti coglie, dici: “Anche stavolta è andata
bene”. Chi fa questo mestiere la vede spesso, la vede negli altri, la vede a
volte in sè, non si crede mai che possa succedere se no non si potrebbe fare
questo lavoro con “serenità”. Succede, ma noi non siamo i protagonisti di
questa storia e quando lo diventiamo purtroppo non la possiamo raccontare noi,
quindi si, la si vede, ma non è la cosa più importante.
Come ci si muove a livello giornalistico
su scenari di guerra?
Dipende da cosa si sta raccontando e dal
posto in cui ci si trova. Di sicuro noi lavoriamo spesso con dei fixer, che sono
dei giornalisti locali, se si ha la fortuna di avere un giornalista locale o
comunque delle persone che ci possono fare da traduttori, si organizza il
lavoro. Io quando parto, in teoria ho già in testa quello che vorrei fare, poi
in pratica non è quasi mai così perché le cose evolvono man mano che le stai
vivendo e si cerca il momento in cui si possa parlare con più persone possibile
e cercare di capire e non avere mai preconcetti né pregiudizi e imparare ogni
volta qualcosa di nuovo.
Quali sono le tue ambizioni?
Una volta la mia ambizione era quella di
essere assunta da un giornale, adesso ho capito che ora non ci sono forse
neanche giornali in Italia dove vorrei essere assunta. Quello che adesso
desidero è rendere Radio Bullets sostenibile in modo tale che io non debba più
lavorare per dei giornali meinstrem che non sono più realmente in grado di
cogliere quello che il servizio del giornalismo è, e rendere la gente più
consapevole, far si che la società evolvi. Adesso ai giornali questo non
interessa più.
Hai dei rimpianti?
Forse quello di non aver fatto l’idraulico,
dove sarei più tranquilla ad arrivare a fine mese (risata). Non ho rimpianti,
perché questo lavoro è stato un privilegio, è stato faticoso perché farlo
come freelance in Italia è veramente mortificante a volte, però ho avuto la
possibilità di incontrare persone straordinarie e ancora continuo a farlo. C’è
tanta gente che sostiene Radio Bullets, anche se non siamo ancora arrivati al
sostentamento e credo che questo sia la cosa più importante, di lasciare un
segno e pian piano lo stiamo facendo noi con la nostra redazione.
A proposito di libri, il tuo prossimo
libro di cosa parlerà?
Si, ho un libro che devo solo finirlo, perché
c’è la storia delle donne afgane.
Hai ricevuto parecchi premi e
riconoscimenti. Ce n’è uno a cui sei particolarmente legata?
Sono legata un pochino a tutti, però devo
dire che sono più legata forse al primo che ho ricevuto, al premio Lucchetta,
che mi è stato dato da questa fondazione che sta a Trieste, che è stato un
riconoscimento giornalistico, poi ho preso anche quello intitolato a Maria
Grazia Cutuli e ne ho presi tanti, però il primo è sempre quello che in
qualche modo rende vero tutto quello che stai facendo.
Da pochi giorni sei rientrata nella tua
città. Come hai trovato Roma?
Roma purtroppo è una città in gravi
condizioni di abbandono. Ogni volta che torno, soprattutto quando torno da zone
di guerra, i primi giorni trovo Roma tutta perfetta, tutta meravigliosa, poi
passano tre giorni e torna ad essere quella città dove la pattumiera non viene
raccolta in modo sufficiente, dove i trasporti non funzionano, dove tutti sono
un po’ nervosi. Però di fatto nessuno
riesce a fare niente. Ma resta sempre una delle città più belle al mondo.