Clara
Raimondi (poetessa)
Roma 26.10.1990
Intervista di Gianfranco Gramola
Una
poetessa brava, sensibile, appassionata di Roma, città che tante emozioni le ha
regalato
Intervista
Sei
nata a Roma, Clara?
Si!
Sono nata a Roma e questo si può intuire dal titolo dell’unico libro che ho
pubblicato nel 1979: "Dio t’aringrazzio
d’esse nata a Roma". Quando? Troppo
tempo fa… finiva l’anno 1909.
Che
sensazioni di regala Roma?
Roma
mi ha regalato sensazioni infinite: di bellezza, di orgoglio per esservi nata,
di dolcezza nel percorrere stradine minori, vicolo appartati, ricchi di storia,
di leggende: di ammirazione per la sua maestosità. Ad esempio dall’alto della
scalinata dell’Ara Coeli si può godere una delle visioni magiche della città:
campidoglio, teatro di Marcello, piazza Venezia con maestoso palazzo storico e
strade che si inoltrano nel centro cittadino, là dove inizia la via del Corso
(già corso Umberto I) e la via del Plebiscito che porta verso l’Argentina e
la Chiesa Nuova (questa chiesa fu eretta nel sec. XVI), mentre le chiese
“nuove” di oggi sono tutt’altra cosa: spazi vuoti, con brutte architetture
e peggiori affreschi o mosaici che non inducono alla preghiera, ma a domandare
al Signore il perché di tanto scempio d’arte.
Quando
vuoi fare una passeggiata, che zona preferisci?
Per
una passeggiata preferivo (da molto tempo non posso più permettermi lunghi
percorsi a piedi, ho problemi alle gambe)talvolta il centro storico o la via
Margutta o viale D’Annunzio su cui affaccia la Villa Medici e ammirare
dall’alto la scalinata di Trinità dei Monti, la piazza di Spagna e tutta la
zona settecentesca della città. Oppure mi piaceva percorrere le strade
silenziose dell’Aventino, ricche di verde e di chiese suggestive come S.
Alessio, S. Sabina, San Saba e la piazza dei Cavalieri di Malta.
Un
difetto dei romani?
Uno
dei difetti dei romani? Penso che tutto il mondo è paese, come dice un
proverbio molto saggio e i difetti sono comuni un po’ a tutti. Di difetti i
romani ne hanno tanti. Il romano è un po’ strafottente, cioè non curante
dell’opinione altrui e talvolta è un po’ pigro. Attenzione però, non tanto
pigro se il lavoro è “in proprio” e non dipendente da impieghi “sicuri”
(statali, comunali e di Enti pubblici vari). Sono pigri anche nel conoscere Roma
come andrebbe conosciuta e goduta da chi vi è nato e vi dimora. Io, per
fortuna, non ho rimorsi in questo senso: finché ho potuto farlo, ho visitato
Roma anche nelle sue zone più remote, visitando chiese, palazzi e musei. E’
anche vero che anni addietro tutto era più facile, bisogna ammetterlo.
E
una virtù dei romani?
Una
virtù? Prendere il mondo come viene, con molta filosofia senza troppo darsi da
fare per cercare di migliorare le cose (e questo è anche un difetto). Forse una
virtù dei romani è la bonarietà che si esprime in vari modi, il più delle
volte schivi poiché hanno una sorta di pudore che impedisce loro di mettersi
troppo in evidenza. Una caratteristica del romano de Roma è l’arguzia, la
battuta pronta e piena di spirito che manifesta fin dalla prima età; un
campionario di questi giovani si può trovare la domenica alla circa Sud dello
stadio Olimpico, dove talvolta una frase o una sola parola sono efficacissime e
sempre vivaci. Tutto questo attraverso un dialetto che purtroppo va sempre più
mescolandosi con i molto dialetti degli immigrati del sud e talvolta anche del
nord Italia. Il peggio è che quando diciamo “i romani”, non si considera
che ormai essi sono una sparuta minoranza; così accade che ai romani vengono
attribuiti anche difetti e demeriti che non hanno.
Qual
è il fascino di Roma, Clara?
Roma
ha un suo fascino particolare, che ha sempre attratto gente di tutti i popoli.
In questa città si sono sentiti vincolati per ciò che di grande ha saputo
sempre ispirare, specialmente in materia di arte: letterati, poeti, pittori,
scultori e architetti celebri hanno lasciato opere grandiose come traccia del
loro passaggio.
La
tua piazza preferita?
E’
una domanda imbarazzante perché dovrei nominare non una, ma molte piazze.
Comunque andrei sempre a finire sulla sommità del colle Capitolino che oggi però,
grazie al cosiddetto “progresso”, è priva della statua equestre di Marco
Aurelio: nel centro della “stella” quel piedistallo vuoto è il segno dei
tempi. Si! Purtroppo il “progresso” è causa della distruzione di tante cose
belle che “furono”.
Clara Raimondi riceve un Premio
Ti
piace la cucina romana?
Non
sono né golosa né fanatica al punto di essere legata ai “piatti romani”,
poiché ogni regione ha qualcosa di tipico che gradisco molto. Comunque una
golosità romana che preferisco molto è il pollo con i peperoni. Mangio spesso
questo piatto…escludendo i peperoni (il fegato non li tollera), ma il solo
fatto che il pollo sia stato preparato con quel sapore me lo rende molto gradito
e tollerabile. Ho mangiato qualche volta la coda alla vaccinara e la trippa alla
romana, ma per il mio gusto sono cibi troppo grassi e pesanti.
Hai
conosciuto l’attore Aldo Fabrizi, vero?
Si!
L’ho conosciuto al Centro Romanesco Trilussa (di cui sono socia dal 1970)
perché talvolta egli fece parte delle giurie nei nostri concorsi poetici e
ricordo il popolare attore romano per la sua schiettezza (che talvolta rasentava
la scortesia) e per il suo attaccamento a Roma.
So
che collabori con riviste dialettali.
Fin
dagli anni ’60 collaboro con il Rugantino, allorché tale periodico usciva tre
volte a settimana; era un piccolo
foglio di sole quattro pagine, ed era diretto dal Maestro Fortunato Lay e nei
vari concorsi annuali di San Giovanni vinsi anche dei premi. Era impostato in
modo diverso, più “popolare” e due delle quattro pagine erano occupate da
romanzi a puntate: romanzi storici o di fantasia, piuttosto “strappa
lacrime” (un po’ come lo sono
oggi le telenovelas che vengono dall’America Latina). Poi per difficoltà
varie subì dei rallentamenti nella pubblicazione non più trisettimanale, fin
quando – per motivi personali e di salute – il Maestro Fortunato Lay vedette
la testata a Achille Marozzi. Attualmente è molto ben diretto ed ha buoni
collaboratori nelle rubriche di spicco (forse ha il difetto di accogliere
talvolta dei poeti non troppo all’altezza del resto del periodico che vanta
delle buone firme).
Com’è
avvenuto il tuo accostamenti verso la poesie romanesca?
Il
mio accostamento alla poesia romanesca fu
del tutto occasionale. Fin da bambina ho sempre letto opere di poeti romani,
principalmente di Trilussa, Pascarella, Zanazzo e altri minori. Non avevo mai
scritto in versi, neppure in lingua, fatta accezione per qualche parodia su
testi poetici studiati a scuola. I primi versi nel dialetto di Roma li scrissi
di getto, allorché mi recai ai funerali del nostro Trilussa. La prima poesia
dunque porta il titolo “Addio Trilussa!”. Rimasi meravigliata di
quell’improvviso tentativo e desiderando avere un giudizio disinteressato su
quella prima lirica in dialetto e non avendo alcuna conoscenza nell’ambiente
dialettale, provai a chiedere un parere ad un critico molto severo e da tutti
definito “dal carattere difficile”. Sapevo che era stato amico di Trilussa;
pur dubitando di avere una risposta, pensavo che comunque – data la sua nota
intransigenza – sarebbe stata senz’altro sincera. Lo feci per scritto e con
mia grande sorpresa ebbi da Vincenzo Talarico (tale il nome del critico in
questione) una risposta sollecita, cortese e di incoraggiamento in cui mi
prometteva che avrebbe fatto pubblicare la poesia che allora, non esperta del
rigore dialettale a non usare termini troppo in lingua, intitolai
“Commiato”. Pochi giorni dopo, lo stesso critico e giornalista, la fece
pubblicare vicino ad un suo articolo su uno dei primi numeri della rivista
mensile “Semaforo” che nasceva allora. Non nascondo che provai una grande
emozione nel vedere stampato il mio nome in calce alla poesia e ciò solo perché
casualmente una mia zia ne fu avvertita da un’amica che si era abbonata alla
rivista. Sicuramente se il Dr. Talarico mi avesse consigliato a desistere dallo
scrivere in dialetto, lo avrei sicuramente ascoltato. Invece…cominciai da
allora (dicembre 1950) e ho sempre continuato. Ho attraversato anche periodi difficili per tante vicissitudini che mi facevano disertare
la poesia. Ma appena riuscivo a superare i momenti difficili e gli stati
d’animo negativi, la vena poetica riaffiorava e riprendeva il sopravvento. A
dicembre prossimo saranno, se ci arriverò, quaranta anni di poesie romanesca.
Hai
ricevuto tanti premi?
Ho
ricevuto numerosi premi nei concorsi di poesia, ma la prima coppa (allora
d’argento) per la poesia “Li fochi de Roma”, mi fece una grande
impressione e così pure la prima Targa d’argento “personalizzata”, cioè
con il mio nome inciso sulla Targa stessa, incisa dallo scultore Mortet di Roma,
per la poesia “Campo de’ Fiori”, ricevuta dal giornalista e collaboratore
del Rugantino Domenico Pertica. Ma il premio più ambito è stato quello
assegnatomi in campidoglio come “Donna italiana” per la poesie dialettale
nel 1984. Il premio “Adelaide Ristori” è molto prestigioso, riservato solo
alle donne che si sono distinte nel campo artistico, professionale o
imprenditoriale. E’ l’unico diploma
che ho messo in cornice.
Ma
Roma per te è o era la città più bella del mondo?
Roma,
per me, è ancora la città più bella del mondo, nonostante il degrado la stia
offendendo nel modo più brutale. E’ la città dove sono nata, quella lodata e
amata da artisti e poeti di ogni Paese. Roma è un prisma dalle mille
sfaccettature e in ogni luce, in ogni colore brilla un’epoca passata; ha
un’impronta di bellezza da quando Romolo tracciò il solco della città
designata a predominare sul destino di altri popoli e di altre civiltà e
lasciare il suo segno eterno in terre vicine e lontane. Per questo è un dolore
vederla in balia di chiunque voglia depredarla e sfigurarla, senza nessun
rispetto per la tradizione e per la civiltà.
Se
tu avessi la bacchetta magica, cosa faresti per Roma?
Se
avessi la bacchetta magica? E’ una parola. Ci vorrebbe una bacchetta veramente
prodigiosa che con un solo gesto riuscisse a ridurre il numero delle persone che
stanno rovinando Roma, il numero delle macchine che viste dall’alto formano un
tappeto che copre ogni strada, ogni spazio libero dando alla città l’aspetto
di un immenso “garage”. Meglio ancora se la bacchetta riuscisse con un solo
colpo a dare un po’ di buon senso e di educazione civica a tutti, compresi
quei pochissimi romani, ché tali siamo rimasti e che supinamente si rassegnano
a questo scempio materiale. Io non riesco a rassegnarmi. Comunque, nonostante
tutto, non rinnego il titolo del mio libro:"Dio
t’aringrazzio d’esse nata a Roma".
Perché tanto a Roma rimane tutto com’è. Roma resta abbandonata alla mercé
di chi vive, anzi “vegeta” e soprattutto “mangia” allegramente, infischiandosene della
storia e del futuro dell’Urbe.