Fausto Bertinotti (politico)                  Roma 7.4.2021

                   Intervista di Gianfranco Gramola

Fausto Bertinotti è nato a Milano il 22 marzo 1940. Già segretario del Partito della Rifondazione Comunista dal 1994 al 2006, è stato presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Ideologicamente a cavallo tra comunismo ingraiano e socialismo lombardiano, Bertinotti è un convinto movimentista, politicamente vicino all'esperienza dei contemporanei movimenti sociali radicali (in particolar modo no-global), pacifista e nonviolento. È stato inoltre per molti anni un sindacalista della CGIL, iscritto dapprima nel Partito Socialista Italiano, poi, dopo una breve esperienza nelle file del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nel Partito Comunista Italiano e, a seguito della sua dissoluzione, nel Partito Democratico della Sinistra, entrando infine a far parte di Rifondazione.

Opere

La Camera dei lavori (1986) - La democrazia autoritaria (1991) - Tutti i colori del rosso (1995) - Il nostro nuovo comunismo, ripartendo da Marx (1996) - Le due sinistre, con Alfonso Gianni (1997) - Pensare il '68, con Alfonso Gianni (1998) - Per una società alternativa, con Giorgio Riolo (1999) - Le idee che non muoiono, con Alfonso Gianni (2000) - Per una pace infinita, con Alfonso Gianni (2002) - Nonviolenza. Le ragioni del pacifismo, con Lidia Menapace e Marco Revelli (2004) - L'Europa delle passioni forti, con Alfonso Gianni (2005) - Io ci provo, intervista di Cosimo Rossi (2005) - Il ragazzo con la maglietta a strisce, conversazione con Wilma Labate (2005) - La Città degli Uomini. Cinque riflessioni in un mondo che cambia, con Sergio Valzania (2007) - Ottimismi di volontà (2008) - Devi augurarti che la strada sia lunga, con Ritanna Armeni e Rina Gagliardi (2009) - Chi comanda qui? Come e perché si è smarrito il ruolo della Costituzione (2010) - Le occasioni mancate, 1991-2001-2011, con Dario Danti (2012) - La discorde amicizia. Lettere sulla sinistra, con Riccardo Terzi (2013) - Sempre daccapo. Globalizzazione, socialismo, cristianesimo. Conversazione con Roberto Donadoni (2014) - Colpita al cuore. Perché l'Italia non è una Repubblica fondata sul lavoro (2015).

Intervista

Onorevole Bertinotti, come si è avvicinato alla politica?

Di avvicinamento alla politica non si può parlare, perché sono nato “nella” politica. Nasco nel 1940 e avevo un padre meraviglioso, macchinista delle ferrovie, che mi ha insegnato fin da piccolo a leggere il suo quotidiano. Lo ricordo ancora con il mozzicone della sigaretta e io abbarbicato sulle sue spalle a sentire un comizio di Pietro Nenni in piazza del Duomo, oppure di aver visto insieme la sfilata dei parmigiani che entrava in città sempre con la mano di mio padre. Quindi il viatico è stato quello famigliare e il vero ingresso nella politica ha una data precisa, cioè nel 1960, l’anno del boom, della rivolta antifascista contro la decisione del governo Tambroni di consentire il congresso del Movimento Sociale Italiano, a Genova, quella ribellione che portò in piazza una nuova generazione che si chiamò da allora “generazione delle magliette a strisce”, perché erano le magliette di moda in quel periodo. Nacque da lì il completamento del cammino che è stato iniziato da mio padre, e da quel momento lì camminai con le mie gambe. Pochi anni dopo entrai nel sindacato in una realtà di provincia, iper periferica, che poi ha segnato tutta la mia vita, perché se mi si chiedesse cosa sono, direi che sono un sindacalista. Sono stato fortunato perché ho potuto fare quello che avrei voluto fare, appunto il sindacalista.

Chi per primo ha scoperto il suo talento, le sue potenzialità politiche?

Questo è difficile da dire. Sento che sono cresciuto con dei grandi padri e i primi dei quali sono stati gli agenti sindacali di base, spesso muscolarizzati, perché la mia generazione è stata dotata di una capacità di apprendimento straordinario e con loro le donne e i commissari di fabbrica. I commissari interni delle fabbriche tessili sono stati i miei primi maestri di vita sindacale e politica e poi subito dopo, la grande maestria dei sindacalisti torinesi, la straordinaria genia dei grandi sindacalisti veramente eccezionali per intelligenza politica e culturale e per coraggio intellettuale.  

Qual è stata la gatta da pelare più impegnativa da sindacalista?

Difficile farne una gerarchia. In genere quelle che più davano un’ansia sui risultati o sul futuro nelle occupazioni delle fabbriche a difesa dei posti di lavoro, perché dall’esito della contesa, del conflitto, dipendeva la possibilità per donne e uomini di difendere il loro posto di lavoro. Quelli erano  terreni particolarmente impegnativi. Come lo è stata la vicenda dei 35 giorni di lotta alla Fiat di Torino.

La politica per lei è stata più un mestiere o una vocazione?

Se si scindono si fa un disastro, ne nell’uno e nell’altro caso. Se diventa solo mestiere, si vede l’esito ai giorni nostri, se diventa solo vocazione, diventa la conduzione di profitti disarmati. La politica indubbiamente è una vocazione, non c’è  dubbio, una passione, come diceva Che Gevara “una passione durevole”, una grande passione che quindi si può esercitare anche senza che ci sia. Non c’è bisogno di gestire la politica per esercitare la politica. Adesso per esempio io che non lo faccio di mestiere, faccio politica nelle forme, nella ricerca, nella scrittura, nella elaborazione e in tante altre cose.  Se uno fa il sindacalista deve conoscere gli attrezzi del mestiere, così come chi  sta in un’istituzione, sia quella consigliare che quella parlamentare. Quindi diciamo che ci vogliono entrambe. Un buon politico è la combinazione tra la passione politica e l’esercitare il mestiere.

Lei non trova che si fa più politica in televisione che nel palazzo del potere?

No, non si fa politica in tv, si chiacchiera.

Se per lei fosse andata male con la politica, qual era il suo piano B?

Non ho mai avuto un piano B, perché si sarebbe determinato strada facendo. Non è che quando avevo 16 anni pensavo di fare chissà cosa, a trovarmi a dirigere un partito e più avanti il parlamentare italiano. Non ho mai pensato a cosa succedeva l’anno dopo, anche perché ero troppo affascinante quello che stavo facendo e ho continuato a farlo.

Lei vede un suo erede politico?

E’ cambiato il mondo, nessuno ha eredi. Nessun genere per chi ha vissuto la stagione del movimento operaio, perché è cambiato tutto.

Due parole su Renzi, Berlusconi e la Meloni?

No, non faccio questo tipo di confronto, perché come ho detto prima, ho troppo rispetto della politica. Questo andrebbe bene per un talk show.

Una delle piaghe che non riusciamo a  debellare è quella del femminicidio, della violenza sulle donne. 

Questa piaga è una delle tante manifestazioni di una crisi di civiltà. Questo capitalismo che tende a mercificare tutto, comprese le persone, produce disastri che se non si cambierà rotta, produrrà danni tremendi, anche sull’ambiente e sulla natura. Li produce sulle condizioni sociali delle persone, li produce su quelli che sono costretti ad emigrare dalle proprie terre per andare lontano, li produce nella violenza sulle persone e li produce in una crisi di civiltà che va da quello che denuncia il movimento di lotta americana del “black lives matter”, fino alle donne italiane che giustamente denunciano questi gesti violenti, che sono l’espressione di un caso di inciviltà, di una società patriarcale capitalista che non ha più contrappesi di equilibri interni, ma da cui si spinge verso la violenza e la sopraffazione e le donne sono le vittime predestinate in questa situazione drammatica. Questo perché parlano della vita, perché la loro immagine ha a che fare con l’umano, chi  parla direttamente con l’umano  diventa un bersaglio di sopraffazione. Però i  prodotti esistono, è il frutto del capitalismo patriarcale, non è il frutto di impazzimento di qualcuno. E’ il frutto di un impazzimento dell’organizzazione sociale.  

Lei ha scritto circa una ventina di libri. Ce n’è uno a cui è legato particolarmente?

Ma no. Il libro è una fatica di costruzione, anche gratificante. Una volta pubblicato si dimentica, poi fa la sua strada, se l’ha fatta.

Uno che le ha dato soddisfazione in fatto di vendite?

Non ricordo quale, ma un mio libro è entrato nelle classifiche dei grandi quotidiani e quindi doveva avere avuto un grande successo di vendite. Peccato che non ricordo quale fosse.

Come sta vivendo questo mezzo lockdown?

Con la fatica di tutti e con la percezione di essere pur sempre con la condizione  privilegiata. Ho una casa abitabile, ho vicino mia moglie con cui sto insieme da più di 50 anni, ho figli e nipoti che sono affettuosissimi. Cosa faccio? Scrivo molto e faccio un po’ di conferenze on line. Io sono un vecchio militante e per me l’assemblea, il comizio, la riunione è il rapporto con chi guardi in faccia, lo guardi negli occhi, gli parli e hai una risposta. I metri di distanza producono delle forme di alienazione che rendono più faticoso questo lavoro, anche meno interessante. Francamente lo faccio perché mi viene chiesto, e non voglio fare il prezioso, ma è un’attività che mi piace poco.

Da Milano a Roma, com’è stato l’impatto?

C’è stato prima il passaggio decisivo della mia vita che è Torino. Il passaggio per Roma è stato il triangolo Milano, Torino, passando per Novara e poi Roma. Siccome il primo passaggio quello da Milano a Novara, è stato quello famigliare, per l’età in cui si proponeva è stato un passaggio impegnativo, difficile. Gli altri sono stati dei passaggi naturali e straordinari come scelta di vita. Non era tanto la città che decideva, quanto il lavoro che dovevo fare in quella città.

A Roma in quali zone ha abitato?

C’è stato un periodo brevissimo in cui aspettavo che mi raggiungesse mia moglie, in una zona cui non ricordo il nome. Poi con lei sono andato a vivere a Vigna Clara, quindi Roma nord e ora sto in viale Regina Margherita.

Fra poco ci saranno le elezioni del nuovo sindaco di Roma. Ha qualche consiglio da dare ai nuovi candidati?

Per  l’amor del cielo. Dare consigli è un cattivo esercizio. Ogni cittadino deve fare la sua parte, con il comitato di quartiere, dicendo la sua, esprimendo la sua opinione, lanciando qualche idea. Un famoso scrittore diceva che chi si candida si proponga alla città.