Leo Gullotta (attore) Roma 23.1.2005
Intervista
di Gianfranco Gramola
Per
lui recitare è un Carnevale
Leopoldo
(questo il suo vero nome) Gullotta è nato a Catania il 9 gennaio 1946. Figlio
di Carmelo, pasticcere e di Carmela, casalinga, è un grande interprete
drammatico, esilarante maschera comica e cabarettistica. L'attore siciliano si
trova a proprio agio in entrambi i ruoli. Scopre la vocazione per il teatro,
assistendo ad uno spettacolo di Vittorio Gassman. Muove i primi passi artistici
il Teatro Stabile di Catania con maestri della recitazione quali Salvo Randone e
Turi Ferro. Approda quindi a Roma dove diventa protagonista sin dagli anni '70
del cabaret e del varietà televisivo italiano. Tra le sue imitazioni e
macchiette, famosa quella della signora Leonida. Ricordiamo le partecipazioni a
“Biberon” (1987), “Crème Caramel” (1991) e “Saluti e baci” (1993)
con Pippo Franco, Oreste Lionello e Martufello. Lavora anche in alcune fiction
di successo come “Le ragazze di piazza di Spagna” (1997) e “Onora il padre”
(2001). Sul grande schermo, contemporaneamente ad interpretazioni in alcune
pellicole commerciali, proficua la collaborazione con il regista Nanny Loy.
Cominciata con “Caffè Espresso” (1980) e proseguita con “Mi manda Picone”
(1984) e “Scugnizzi” (1989). Poi un altro importante incontro: quello con il
regista corregionale Giuseppe Tornatore con il quale completa il bagaglio
artistico. Dapprima con “Il camorrista” (1985) poi con gli applauditi
“Nuovo cinema Paradiso” (1988) e “L’uomo delle stelle” (1995).
Commuove, emoziona e si afferma in ruoli drammatici come ne “La scorta”
(1993), in “Palla di neve” (1995), “Bruno aspetta in macchina” (1996),
“Il carniere” (1997) e “Un uomo perbene” (1999). Sino a “Vajont” ed
alla fiction tv “Cuore” (2001). E in questi ultimi due lavori, presenta al
pubblico un'immagine diversa, non solo quella comica e caricaturista della
televisione e del cabaret, ma anche quella straordinariamente umana del cinema.
Ha
detto:
- Il
dolore è stato il grande maestro della mia vita, quello che mi ha fatto
maturare più in fretta, perché insegna ad essere più umili e disponibili
verso il prossimo.
- Da bambino se ero cattivo. Non crocefiggevo
le lucertole, non mettevo le farfalle nel forno. Il massimo era fare la pipì
sui pomodori dell’orto del vicino: non ferocia, ma goduria.
- Oggi
le vacanze si possono pagare con le cambiali. Se non si parte per la Sardegna e
si preferisce Frosinone o un soggiorno sul lago, sei considerato un pezzente.
- Quando
lavoravo nel film “Cuore”, nei panni del burbero Preside della scuola, i
bambini che recitavano mi identificavano con il mio personaggio severo e
austero. Ho conquistato la loro fiducia un po’ alla volta e alla fine mi hanno
regalato disegni e letterine in segno di affetto.
- Il
mestiere di attore, ti permette di volare, di giocare e di prendere ogni giorno
come se fosse carnevale.
Curiosità
- Ha
tre sorelle (Mariù, Graziella e Tina, deceduta a 27 anni per embolia) e due
fratelli (Gianni e Tino).
- E’
un ex insegnante di disegno e di storia dell’arte.
- Ha
scritto il libro “Mille fili d’erba – ovvero, come vivere felici anche su
questa terra”.
- Lui
stesso ama definirsi “operaio dello spettacolo”.
- Ha adottato due bambini che vivono in un
villaggio del Kenia.
Intervista
E’ nella sua bella casa a due passi dalla
basilica di San Giovanni. Un piccolo aneddoto… L’ho contattato grazie a
Oreste Lionello che gli ha detto che volevo intervistarlo e, per scherzo gli ha
detto che sono un prete. Leo per tutta l’intervista mi ha chiamato “padre”
e “dica padre”.
Quando
ti sei stabilito a Roma e come ricordi l’impatto?
Io
sono a Roma da circa 33 anni. L’impatto è stato positivo, nel suo tanto bene
e nel suo poco male, per quanto mi riguarda. Allora venivo dalla provincia, da
Catania dove ero formato all’interno del Teatro Stabile di Catania, dove ero
cresciuto accanto a Turri Ferro e Salvo Randone e a Sciascia e Giuseppe Fava.
Tutta una serie di grandi uomini del Teatro, quindi con una conformazione
professionale molto alta. Ho deciso di cambiare nel senso che questo mestiere
viene fatto guardando il mondo e non si può stare fermi. Una volta assunta
questa posizione professionale, questo avviamento importante sono passato a
Roma. Nella capitale stavo in una pensioncina e avevo come punto di riferimento
un ristorante che stava lì di fronte, che era il luogo dove andavo a mangiare,
ma anche il luogo che usavo come una specie di segreteria telefonica, di
ufficio. Avevo stabilito un rapporto veramente umano, molto bello con il
proprietario. Era al centro di Roma, in via Panisperna. Con Roma ho avuto un
impatto molto fruttuoso dal punto di vista umano, sempre puntato verso queste
note, appunto sull’umanità. Un reciproco approccio basato sul sorriso, sul
rispetto, sulla dignità e con il tempo crescevo, scoprendo altri lati del mio
lavoro. Fino a quando non ho avuto questo punto di partenza cioè di cambiare
una fetta del mio lavoro nel così detto teatro leggero e ho cominciato con il
cabaret. Ho cominciato il cabaret con il Puff, di Lando Fiorini, che era per me
il punto di partenza, un luogo molto amico, perché il Puff diciamo viene
portato avanti da ormai 36 anni, da quest’uomo che è Lando Fiorini, cantante
romano di cuore, trasteverino autentico. In quell’occasione, Trastevere, mi
volle subito bene, tant’è vero che rimasi per due stagioni all’interno di
questo cabaret storico. Io fino a quel momento avevo fatto la prosa e come tutti
gli attori di prosa un pò seriosi, mi sono scoperto delle zone, delle qualità
che non conoscevo di me, dal punto di vista professionale. Mi sono scoperto la
comicità una faccia cambiabile (risatina) un gran successo. E poi è venuto
tutto il resto, oltre al teatro, il cinema, il doppiaggio e trasmissioni
radiofoniche. Ho lavorato anche con Delia Scala e ho fatto il cinema anche
quello commerciale. Però tutto questo sempre con una mia cucitura principale
che era il rapporto umano con queste persone. Infatti in questi 33 anni dovunque
sono andato a lavorare, a rapportarmi, ho sempre basato i miei rapporti sul
sorriso e sulla gioiosità e sulle curiosità innanzi a tutto. Guai ad essere
fermi e a cucirsi addosso note blande o ad erigere piedistalli. Questo è il
lavoro più bello del mondo, il mio, si sceglie, l’ho scelto, ho avuto la
possibilità di farlo, ho avuto la possibilità di avere
un’impostazione molto importante ma anche un’impostazione in quegli anni
dell’adolescenza, perché si è più spugne,
e l’esser accompagnato, attorniato come punto di riferimento con degli
uomini che ognuno ma ha dato e portato qualcosa e quindi la mia crescita è
grazie a quegli anni teatrali ma anche quelli scolastici, perché anche a scuola
ho avuto degli insegnanti umanisti, persone meravigliose.
E
il mio rapporto l’ho sempre cucito con queste note verso la vita e quindi mi
sento un fortunato. E in quegli anni, dove facevo serenamente il mio lavoro per
costruire, ricordo una Roma enorme, una metropoli, una città che ti può
apparire meravigliosa o terribile, a seconda dei momenti, soprattutto per chi,
come me, veniva dalla provincia.
Io,
come ti dicevo, venivo da Catania verso gli anni ’70, grosso modo. E questo
sorriso che provavo dovunque, quest’attenzione affettuosa nel primo momento,
nel primo passaggio importante, appunto con il pubblico, con la platea a 10
centimetri, questa affettuosità trasteverina, romanesca mi hanno spinto sempre
di più a costruire serenamente senza le ansie tipiche di chi vuole tutto e
subito. Questo è un mestiere, il mio, dove fino a 105 anni si impara sempre
qualcosa di nuovo.
C’è
un angolino di Roma a cui sei affezionato, Leo?
Diciamo
i percorsi abitativi, anzi “pensionistici”, perché stavo sempre nelle
pensioncine e quelli sono stati degli angoli dove c’era gente e quindi facevo
riferimento sicuramente a quella fase mia di nascita. Io sono nato a Catania, in
un quartiere semplice e povero. Mio
padre era operaio e quindi c’era un rapporto molto umano con i vicini di casa
e persino un rapporto alimentare, appunto con lo scambio dello zucchero e della
farina, un rapporto molto umano, insomma. Oggi abito, frequento e sono legato a
zone dove c’è vita, dove c’è popolo e quindi a quartieri come Monti, a via
Panisperna, via del Boschetto, via degli Zingari, ecc… a quartieri popolari,
ma con flussi importanti, positivi dall’animo umano. Ho abitato anche in
un’altra zona trasteverina, a Porta Portese, per un altro periodo di tempo e
anche lì ho costruito un buon rapporto, accanto a gente semplice, che lavora.
Ecco perché mi piace il rapporto di zone abitative, dove tu scendi da casa,
compri il giornale, ti siedi al tavolino, ti prendo il tuo caffè e quindi mi
porto dietro una radice catanese, senz’altro meridionale e senz’altro “brancaniana”,
perché fu Brancati a descrivere meravigliosamente bene questa filosofia del
tavolino e del caffè e del parlottio, dello scambiarsi delle chiacchiere.
Quindi questi tempi sono dentro di me e sono molto forti. Poi c’è stato un
altro luogo, molto centrale di Roma, appunto in via del Tritone, via Due
Macelli, piazza di Spagna, Trinità dei Monti, dove per tanti anni, sia
teatralmente che televisivamente, lavoravo al Salone Margherita, ossia al
Bagaglino. Ripeto, aldilà di
queste indicazioni di queste zone, sono legato a tutto questo percorso della mia
vita. Oggi, per esempio, sto in un’altra zona di Roma, fantastica, bellissima,
che è San Giovanni, quartiere notissimo, dove per me, la bellezza sono i venerdì
e i sabati, quando la mattina scendo da casa, compero il giornale, prendo il
caffè e vado a fare la spesa. Ecco, questo rapporto con l’ortofrutticolo, con
l’edicolante, il barista e vedere le famiglie che escono e vanno a fare la
spesa, i nonni con i loro nipotini che il sabato vanno a passeggio insieme, è
una visione bellissima, gente sana, gente che lavora, gente senza occlusione ed
esclusioni di sorta. Io personalmente non potrei
mai abitare in un quartiere tipo ai Parioli, bel quartiere, non c’è dubbio,
ma che popolato di giorno perché
è pieno di uffici, ma di notte assolutamente isolato e vuoto. Sembra proprio
una zona fantasma. Non parliamo poi della zona dell’Eur, altro quartiere
bellissimo, per carità, che ha delle abitazioni che sono dei paradisi, ma che
però la sera diventano una specie di prigioni dorate, perché ti chiudi dentro
a chiave, cancelli, lucchetti, allarmi, ecc… Non fanno per me questo tipo di
abitazione.
Ami
la cucina romana, Leo?
L’adoro.
Ho un ottimo rapporto con la cucina romana. Io poi credo di avere una buona
chiave, nel senso che io non sono uno che cerca il ristorante legato alla mia
terra. Per motivi di lavoro, pensa che lo faccio da ormai 42 anni, ogni volta
che mi sposto, cerco sempre di mangiare i piatti del luogo, della regione, perché
anche nei piatti locali c’è la storia di quella regione, di quella nazione.
E’ un modo anche per entrare in sintonia. Non mi sono mai chiuso dentro le
cose mie che sono importantissime, per carità, per la sua storia, per tutto, ma
preferisco averle nel luogo dove si fanno, con un uso preciso, con un sapore
preciso. Perché poi sono i piatti, non so, bolognesi, mangiati a Roma o
siciliani, sono sempre tradizioni e manca sempre qualcosa. Non sono come quelli
mangiati a Bologna o a Palermo. E’ come nei libri, Sakespeare, tradotto in
italiano. Le traduzioni, per quanto meravigliosamente siano fatte, non hanno mai quel
fascino, manca sempre qualcosa.
Esiste
una Roma da buttare?
Beh!
Gianfranco, io non mi limiterei ad una Roma da buttare, credo che forse questa
domanda un po’ provocatoria sia legata al movimento del globo terracqueo degli
ultimi 20 anni. Il linguaggio è cambiato, il globale è abbassato, ha
portato tutti a chiudersi e a vivere la realtà soltanto fra le quattro mura di
casa, senza neanche uscire, senza neanche la voglia di aprire le finestre per
guardare cosa c’è fuori. Bisogna rapportarsi. Oggi c’è una realtà molto
importante, che è il villaggio globale e sicuramente una metropoli come Roma,
come tutte le metropoli è sempre un villaggio globale e allora bisogna fare i
conti con una serie di piacevolezze ma anche con una serie di problemi che
vengono fuori. Credo che alla base di questo discorso, non esista una Roma da
buttare. Io non butto mai via niente, nella vita, perché magari c’è una cosa
che non capisco e la metto da parte e il tempo quella cosa me la fa valorizzare
o comunque dare il giusto valore. Non bisogna mai tagliare con l’accetta e
soprattutto non bisogna mai dimenticare che l’Italia, storicamente, è stato
un paese emigrante, quindi verso questo movimento che tutto il mondo che in
questo momento ha, l’Europa, principalmente, con la caduta del muro di
Berlino, dobbiamo fare i conti con la realtà. Non possiamo metterci il
prosciutto sugli occhi, ma di colpo non possiamo diventare delle persone che si
chiudono a riccio, guardando con sospetto chi lascia la propria terra e chiunque
lascia la propria terra lascia sempre qualcosa per un mondo migliore. La chiave
è soltanto quella ed è inutile, secondo me, dentro, mettere quelle note di
divisione tipo quello è il paese dei ladri, quello è il paese dei truffatori e
così via. C’è sempre la mela bacata, anche da noi quando eravamo emigranti,
non so, in terre americane, tanta gente sana e meravigliosa cercava un mondo
migliore di noi, dei nostri nonni, dei nostri avi, in paesi stranieri.
Lavoratori sani ed onesti e poi c’erano quelli più disperati che magari
venivano acchiappati da quel nucleo di minoranza dove, in paesi come
l’America, venivano coinvolti con la mafia e stavano al gioco. Questo è un
gioco blando, molto basso credo che non bisogna mai fare. Bisogna, invece, stare
molto attenti e quindi le cose da buttare, tanto per ritornare al tema della
domanda, bisogna avere rispetto di qualsiasi cosa che abbiamo vicino a noi. La
parola “buttare” è un termine sbagliato, mettiamolo nel posto giusto, nella
condizione giusta, perché in questo nostro paese, dove noi per primi nel mondo,
storicamente, abbiamo trovato accoglienza e futuri migliori, dobbiamo avere
molto rispetto per la disperazione di molte persone che lasciano la loro terra
per un futuro e un mondo migliore e il mondo migliore spesse volte è una
spiaggia nuda, fatta di rocce, fatta di sabbia.
Qual
è
stata la tua più gran soddisfazione artistica?
Ma,
sai, in 42 anni di attività, toccando tutti i generi di spettacolo, avendoli
rifatti e facendoli a tutt’oggi, passando dal varietà televisivo, a Nuovo
Cinema Paradiso, a Scugnizzi, a Vajont, a Cuore, tanto per buttare lì delle
cose, ognuno mi ha dato una soddisfazione, ognuno mi ha insegnato delle cose,
ognuno mi ha portato qualcosa e in ognuno forse ho dato qualcosa anch’io. E’
come una mamma con tanti figli e a cui gli si chiede a quale si sente più
attaccata. Non lo dirà mai.
La
cosa più cattiva che hanno scritto o detto su di te?
Da
questo punto di vista ho imparato la tolleranza, questo grazie anche a quel
periodo spugnoso dell’adolescenza con persone che mi hanno aiutato. Ero
talmente piccolo quando ho iniziato, cioè a 14 anni, che nella compagnia
professionale mi chiamavano “bullottino”, perché ero proprio un ragazzino.
Andavo accompagnato sempre da queste persone più grandi di me, appunto perché
ero un ragazzino e non erano persone gentili. Ognuno però mi ha dato qualcosa.
Ho sempre notato molto affetto nei miei riguardi e molta stima. Quindi cose
cattive, no! Poi, sai, Gianfranco, chi scrive cose cattive non è mai
costruttivo. Si può criticare, cercando però di costruire.
La cattiveria è soltanto una blandezza di chi è vuoto e di chi non
scrive bene. Non ho mai avuto delle cose cattive, ma d’affetto si, tante!
Tipo: "Ma come mai un attore così bravo, fa questo, ecc… ". Ma io mi
definisco come medico generico, non esiste un medico generico che cura soltanto
i raffreddori, il medico generico sa curare tutto, forse non è specializzato,
ma se individua qualche malessere particolare sicuramente manda il paziente
dallo specialista giusto, di quel settore. Quindi sono il medico generico, il
mio mestiere è l’attore che è colui che offre delle interpretazioni dei
personaggi, delle loro vite. L’ho fatto per tanti anni, l’ho fatto
abbondantemente in tantissimi lavori. Forse posso aggiungere che nessuno prepara
torte per farle venire male, se ne accorge soltanto quando le sforna, se manca
un po’ di lievito, o di sale o di zucchero. Bisogna credere in ciò che si fa,
bisogna saper dare, il mio mestiere è basato, credo, su questo ed io ho il
piacere sempre di darmi al pubblico in ciò che faccio. E’ da questo punto di
vista che oggi posso dire che il pubblico ama l’attore, questo volersi offrire
in cose sempre diverse, questo fa la freschezza dell’interprete, anziché
ripetersi indefessamente solo e soltanto su quella determinata cosa. Cose
cattive, no! No! Per affetto si! Hanno sempre sentito affetto e stima per me.
Qualche volta si, c’è stata la cattiveria gratuita, ma quello va da se, come
dicevo prima.
Il
complimento più bello che hai ricevuto e da chi?
Tantissimi
complimenti, sempre, per mia fortuna, chiaramente. Ma forse è un mio modo di
esserlo. Probabilmente il pubblico avverte una pulizia di sentimenti, non ho mai
barattato nulla, non ho mai ambiguizzato niente e non ho mai fatto passare una
cosa per un’altra. Sono sempre autentico, sia nelle interpretazioni dei
personaggi, sia qualche volta in chiacchiere a un’intervista che m’è
capitato di fare e proprio sempre e assolutamente sereno e sincero. Il
complimento più bello probabilmente viene da quelle persone che per le strade
mi fermano anche soltanto per un autografo e questo mi è capitato diverse volte.
C'è anche chi mi ringrazia perché ho fatto ridere o piangere,
conforme il film o il ruolo, mio padre, mia madre e mia sorella, ecc... che oggi
non ci sono più, quindi ogni volta che mi vedono, do loro la possibilità di
questo momento di ricordo, di questo momento di vicinanza sorridente, ai loro
cari. Ecco, questo credo sia il più bel complimento che si possa ricevere se
sei l’emblema di qualcosa che appartiene nel cuore delle persone.
Quando
non lavori quali sono i tuoi hobby?
Molto
normale. Io il mio lavoro lo faccio molto regolare, non mi chiudo in torri di
avorio, non ho la piscina a forma di cuore e piena di champagne. E’ un lavoro
come un altro e che faccio con tutto il cuore, perché lo amo anche se è pieno
di sacrifici. Fanno male i giovani a pensare che qualsiasi lavoro, e quindi
anche il mio, si facciano con semplicità, basta farsi vedere. Ogni lavoro per
farlo bene, bisogna studiare, crescere ed essere attenti ed essere coscienti
sensibilmente di se e di quel lavoro che si va ad intraprendere. Non è vero che
studiare fa male. Studiare fa molto bene. Studiando si conosce il mondo. Si
conosce l’avidità ma soprattutto si è puliti e sereni di fronte al proprio
interlocutore. Forse non ho risposto alla domanda che mi hai fatto?
Ho
chiesto quali erano i tuoi hobby?
Amo
viaggiare, quando posso, mi piace sapere e conoscere. Se ho del tempo, faccio
dei viaggi lunghi in paesi particolari. Mi piace girare, guardare, osservare
altri paesi, altre culture. Mi piace anche la fotografia, ho la mia bella
macchinetta che mi porto sempre appresso e scatto, scatto, scatto. Cerco di
fermare, in un immagine, in quel dato momento, dove c’è una certa
piacevolezza che vedo, non so, quella faccia, quel sorriso, quel cornicione,
quel fiume, quei monti. Sono tutti momenti che porto sempre con me.
Com’è
il tuo rapporto con la fede?
Sicuramente
ti posso dire che sono una persona che ogni tanto ha bisogno di fermarsi dentro
a una Chiesa, chiesa in quanto luogo silenzioso, luogo di fede. Prego, mi sento
di farlo e lo faccio. So che c’è qualcosa oltre noi. Ogni tanto questo
“qualcosa” cerco di vederlo, di capirlo e di domandarmi e di capire, di
agganciare qualcosa in me con un’altra persona. Lo faccio, sono battezzato e
quindi sono cristiano, ma con una serie di pesanti e lunghi interrogativi. Ma
ogni tanto ho la necessità di pregare.
Cosa
pensi della battaglia contro il fumo?
Io
sono un fumatore e rispetto e ho sempre rispettato chi la pensa diversamente da
me e chi ovviamente non fuma e ho sempre rispettato questa chiave, prima di
questi divieti cioè quando si poteva fumare liberamente dappertutto. Anche a
tavola per non dare fastidio a qualcuno, mi alzavo e uscivo fuori. Non sono mai
stato un prevaricatore, però credo che l’impostazione generale di questa
legge non sia per educare, è una legge solo per proibire. Personalmente le
proibizioni non hanno mai dato frutto, non hanno mai costruito delle cose. Credo
che questo, bisognava farlo scolasticamente, come scolasticamente bisognava fare
le materie sul sesso. Il sesso fa parte della vita, della natura e quindi è
giusto far capire e spiegare e se si spiega ai bambini in maniera appropriata,
non solo crescono meglio, ma sanno affrontarlo meglio dopo. Detto questo vado a
capo, credo che attorno trovo delle ambiguità, che è una parola che forse vuol dire poco, ma si fanno delle campagne sul
fumo in questo modo, così proibizionista e diseducativo. Io per strada non vedo
delle campagne con scritto: “Non comprate le automobili!” perché se no la
mia domanda è: “Perché fermare il traffico?” E’ giusto, a me dovete
dire: “Non fumare” va bene perfetto! Non sarò d’accordo, ma è la legge.
Allora perché fermate le città, per via delle polveri sottili. Vuol dire
allora che c’è qualcosa di peggio e qualcosa di peggio sono le automobili e
le automobili sono delle Multinazionali che sono tante a differenza di quelle
del fumo che è una. E allora forse queste multinazionali sono intoccabili perché
aiutano sicuramente a fornire armi per le guerre. E allora io mi domando:
“Come mai, anche scolasticamente, non fanno anche una campagna contro
l’inquinamento acustico? Come mai non fanno una campagna contro
l’inquinamento alimentare?” A proposito di Roma, questa Roma meravigliosa
con trattorie all’aperto, nei cortili, nelle stradine del centro storico. Si
mangia all’aperto con questa magia che è questa scenografia naturale e, sai,
sono talmente tante queste automobili che questi tavolini sono messi in queste
stradine strette, e li passano le automobili a mezzo metro e tu mangi i scarichi
delle auto. E qui, come la mettiamo? Ti passa il tubo di scappamento sul piatto
direttamente. E allora, perché io devo essere, tra virgolette, preso in giro,
da una campagna denigratoria che poi scatta una chiave psicologica sulla gente
dove vedono tutto attorno chi ha una sigaretta in bocca. Quindi io devo dire che rispetto una costrizione più sana più educativa
verso certe cose che possono migliorare la società e la salute dei cittadini.
Non ho mai creduto al proibizionismo in questa chiave. Non è educativo e non
porta a nulla.
Hai
un sogno nel cassetto?
Io
oggi ho 59 anni, fatti il 9 gennaio e la vita con me è stata prodiga e mi
reputo fortunato. Forse un sogno nel cassetto è di avere sempre la salute e la
serenità e che queste due cose
insieme mi consentano di fare meravigliose cose e di prodursi al meglio. Il
resto va, viene, torna e romane. I sogni nel cassetto poi, non bisogna vederli
come sogno irrealizzabili, ma vederli come progetti. Quindi avere sempre un
progetto per la vita. Siamo attraversati anche da grandi interrogativi. Credo
che due note che sono accadute, da una parte l’11 settembre e dall’altra
l’avvento dello Tsunami, credo che abbiano messo il cittadino nel mondo, ad
interrogarsi, a formarsi, a dare un valore alla propria esistenza. Questi due
fatti ci hanno fatto riflettere e anche ad avvicinarci alla fede e ad un più
stabile equilibrio.
A
chi vorresti dire “grazie”?
Io
per mia scelta nella vita e per educazione famigliare, non sono stato e non sono
un colletto bianco, né una testa d’uovo, né un portatore di valige. Però
sicuramente devo dire grazie a quelle persone che hanno creduto in me e
soprattutto a mio padre e a mia
madre.