Rino Tommasi (giornalista sportivo) Roma
30.3.2003
Intervista di Gianfranco Gramola
Un
uomo immerso nello sport
Rino
Tommasi (all’anagrafe Salvatore), considerato uno dei maggiori esperti
mondiali di statistica applicata allo sport, è nato a Verona nel
1934. È laureato in Scienze Politiche con una tesi sull'Organizzazione
Internazionale dello Sport. Negli anni Sessanta è stato il più giovane
organizzatore pugilistico del mondo, il primo in Italia. Discreto tennista (4
volte campione universitario) è stato Presidente del Comitato Regionale del
Lazio della FIT e componente della Commisione Tecnica. Ha cominciato la carriera
giornalistica a TuttoSport quindi nel 1965 è stato collaboratore e poi inviato
della Gazzetta dello Sport, per la quale scrive ancora. Nel 1981 è stato il
primo direttore dei servizi sportivi di Canale 5 e nel 1991 il primo direttore
dei servizi giornalistici di Telepiù. Ha vinto 2 premi di Letteratura Sportiva
del CONI con i volumi "Storia del Tennis" e "La Grande
Boxe". Oltre ad effettuare telecronache di tennis e pugilato per Telepiù,
collabora con la Gazzetta dello Sport, La Repubblica, Il Gazzettino e Il
Mattino.
Ha
detto:
- Forse il match più rappresentativo è stata la
prima delle tre sfide fra Alì e Frazier, il 7 marzo 1971 al
Madison Square Garden di New York. C'era un contrasto di stili perfetto:
l'aggressività di Frazier contrapposta alla velocità di Alì. Fra l'altro fu
un incontro vinto da Frazier ai punti grazie al knock down inflitto ad Alì con
un gancio sinistro all'inizio della quindicesima ed ultima ripresa!
-
Ultimamente mi limito alle ospitate, perché voglio essere più libero nel
gestire il mio tempo.
- La
tenacia con la quale Antonio Matarrese difende la sua poltrona di Presidente
della Lega Calcio, conferma un’antica tradizione italiana contraria all’uso
dell’istituto delle dimissioni anche nei casi imposti dalla decenza e dalla
dignità.
Curiosità
- Ha
vinto il premio “USSI” per la cronaca (intervista a Kissinger) e per
la televisione.
-
Sul quotidiano romano "Il Tempo" ha una rubrica sportiva dal titolo
"Fair Play".
Intervista
E’
nella sua abitazione romana di via Chelini Domenico.
Tu
sei veronese. Quando ti sei stabilito a Roma e come ricordi l’impatto?
Sono
nato a Verona, ci ho vissuto 10 anni, poi sono stato due anni a Milano, cinque
anni a S. Benedetto del Tronto, altri cinque
anni a Milano e poi nel ’56 sono venuto a Roma e ci sono stato fino all’81,
poi sono ritornato a Milano per 18 anni e nel ’99 sono ritornato a Roma.
L’impatto niente di speciale anche perché io ero abituato a vivere a Milano,
una grande città, Roma è una grande città soltanto che il clima è molto più
bello. Dico sempre a chi mi chiede quali sono le differenze tra Milano e Roma,
dico che “bisogna fare i soldi a Milano e spenderli a Roma”. Con questo
voglio di re che a Milano si lavora meglio e a Roma si vive meglio.
Attualmente
com’è il tuo rapporto con Roma?
Buono,
nel senso che non devo combattere con il traffico perché io lavoro a casa e
quindi mi muovo poco. L’aspetto peggiore di Roma è il traffico e io lo evito.
Il resto va tutto bene.
E
con la cucina romana?
Terribile,
infatti ho preso qualche chilo, la cucina romana che è poi quella di mia
moglie, romana de Roma, è troppo buona.
C’è
un angolo di Roma che ami particolarmente?
Un
angolino c’è, nel senso che molto del tempo che ho vissuto a Roma lo ho
passato al circolo Canottieri Roma dove giocavo a tennis oppure a calcetto. Il
posto dove c’è il circolo è il più bell’angolino romano che sta sul
Tevere. E’ nella posizione migliore.
Cosa
provi nel tornare a Roma dopo una lunga assenza?
Oramai
sono abituato ad andare avanti e indietro. E’ tutta la vita che viaggio.
Nessun particolare stato d’animo.
Pregi
e difetti dei romani?
Il
pregio è che sono divertenti e caciaroni, il difetto è che sono
disorganizzati, in sintesi i loro pregi e difetti. I romani hanno sempre la
battuta pronta. Una delle situazioni dove si esprimono
meglio è nei rapporti del tipo, la contrapposizione Roma - Lazio, oppure
lo sfottò alla partita. C’era un pugile italiano che si chiamava Franco
Festucci, un peso medio degli anni 50/55, che aveva una relazione con una
attrice che si chiamava Franca Marzi. Questo Festucci incontra un pugile
tedesco, molto forte, finisce ko alla III ripresa e dal pubblico uno grida: “A
Franca M’arzi?”. Una battuta. I romani non hanno bisogno di prepararle le
battute, ce l’hanno nel sangue. C’era un’ala sinistra del Torino, molto
piccolo, si chiamava Trombini e dal pubblico uno dice: “ Trombini, torna da
Biancaneve”. Un’altra
volta, invece, c’erano due tifosi, uno della Roma e uno della Lazio e quello
della Lazio rivendicava il fatto che la sua squadra era più vecchia della Roma.
La Lazio era stata fondata nel 1900 e la Roma nel 1927. E il romanista gli ha
detto:” Ma come, siete nati prima e ve siete chiamati Lazio. Siete proprio
stronzi!” (risata).
Vivi
la Roma by night?
No!
Non l’ho vissuta nemmeno da giovane, figuriamoci adesso, Gianfranco.
Ma
Roma è o era la città più bella del mondo?
Ognuno
la vede a modo suo. Vai a chiedere, non so, ad un parigino qual è la città più
bella del mondo e sicuramente ti dirà che è Parigi. Roma è una città diversa
dalle altre. E’ una gran bella città, non c’è ombra di dubbio. Per me è
molto più facile dire qual è la città più bella degli Stati Uniti, nel senso
che la vedo con un occhio diverso. Vivendo a Roma non è detto che la conosci
bene tutta. Pensa che io sono stato al Colosseo una sola volta ad accompagnare
Cassius Clay, il pugile, altrimenti non so se sarei andato a vedere il Colosseo.
La
tua più grande soddisfazione professionale?
E’
stata la telecronaca del torneo vinto da Edberg, a Winbledon, nel 1988. Io
nell’83, vedendo giocare Edberg a Winbledon, avevo scritto che se questo
ragazzo non vince Winbledon entro 5 anni, smetto di scrivere di tennis. E a 5
anni di distanza, esattamente nel ’88, Edberg vinse a Winbledon e ho avuto la possibilità di fare quella
telecronaca e nella conferenza stampa Edberg mi ha detto: "Ho salvato il tuo
lavoro, però grazie della fiducia". E’ stata la cosa più divertente.
Delusioni
professionali?
Fortunatamente
non ne ho provate tante, ecco. Forse tra i sogni di un ragazzo ci poteva essere
quello di fare il direttore di un giornale, intendo un quotidiano sportivo, però
mi sono reso conto, andando avanti con gli anni, che i direttori ormai non fanno
più i direttori e che ormai il
lavoro del direttore non è più quello di un giornalista e allora mi piacerebbe
di meno. Oggi, o anche 10 anni fa, mi sarebbe piaciuto di meno di come lo
sognavo da bambino. Mi sono rimaste nel cassetto alcune idee che avrei voluto
sviluppare e realizzare. Io ritengo che si possa fare di più e di meglio nella
comunicazione sportiva, sia dal punto di vista televisivo che giornalistico. Però
alcune le ho realizzate e alcune non ho avuto l’opportunità di farle, ma va
bene così.
Ma
i tuoi genitori che futuro sognavano per te, Rino?
Quando
ho finito il Liceo, siccome ero molto bravo in matematica, mi sono iscritto a
Ingegneria e ho dato un bel po’ di esami. Poi mi sono accorto che non volevo
fare l’ingegnere e allora un bel giorno ho detto a mio padre, guarda, vorrei
cambiare facoltà, mi piace fare il giornalista e così mi sono iscritto a
Scienze Politiche e ho preso la laurea con una tesi sull’Organizzazione
Internazionale dello Sport. La cosa più bella è che mio padre non ha battuto
un ciglio, a differenza magari di altri padri che sarebbero andati in
escandescenza. Invece mio padre disse:” Se ti piace questo, fai questo”,
pensando, giustamente, che se fai la cosa che ti piace , se non sei cretino,
diventi anche bravo. Io poi ho avuto la fortuna che mio padre è stato
un’atleta. Ha fatto due Olimpiadi e ha tenuto per 13 anni il record italiano
di salto in lungo e quindi questa mia inclinazione allo sport gli è sempre
piaciuta. Non ho provato nessuna resistenza nel mio indirizzo professionale,
cosa che magari altri ragazzi provano. I mie hanno sempre cercato di assecondare
la mia vocazione.
Quali
erano i tuoi idoli da ragazzo?
Io
ricordo, durante la guerra…
La
guerra?
Si!
La guerra, perché io sono del ’34 e quindi durante la guerra avevo 7/8 anni e
andavo a vedere le partite del Verona, perché allora abitavo in quella bella
città del Veneto. Mio padre faceva la Campagna di Russia ed era amico del
Presidente del Verona ed io ogni mattina andavo a casa del Presidente a prendere
il biglietto per la partita. Si chiamava,s e ricordo bene, Chiampan e mi dava il biglietto per la tribuna d’onore, ma io non andavo in
tribuna d’onore, perché andavo dritto negli spogliatoi, il custode dello
stadio si chiamava Egidio Menegotti, il cui figlio Enzo ha giocato poi molti
anni in serie A, prima al Modena, poi nel Milan, nella Roma e poi
nell’Udinese. Quindi entravo negli spogliatoi e conoscevo i giocatori e
guardavo la partita da dietro la porta. Questi sono i miei primi ricordi. Il
campionato 42/43, quello vinto dal grande Torino, a 3 minuti dalla fine, è quello che mi
ricordo bene, come se fosse adesso. Aspettavo
l’uscita del Calcio Illustrato, che allora era una pubblicazione guida per gli
appassionati di calcio.
Il
personaggio sportivo a cui sei più affezionato?
Adesso
mi sono un po’ disincantato. Da ragazzino quando vivevo nel mondo dello sport
in lontananza, ero un grande tifoso di Coppi e ricordo che l’Italia era divisa
in due, tra Coppi e Bartali. Io ero per Coppi. Adesso, con l’andare degli anni
e quindi questi campioni mi sono diventati famigliari e gli ho conosciuti
personalmente, non sono più dei miti ma delle persone che ho conosciuto,
apprezzato e di cui sono diventato amico. Da ragazzino potrei dire Coppi e per come giocava Boniperti e poi Rivera. E naturalmente poi Pietrangeli.
Con Nicola, che è stato un grande campione, c’ho anche giocato a tennis una
decina di volte, mentre a calcio circa 300 volte. Siamo grandi amici. Quindi con
questi personaggi siamo diventati talmente amici che non posso più considerarli
dei miti. Erano come le persone della porta accanto.
Tu
hai fatto molte interviste famose. Ce n’è una che ricordi con affetto?
Ce
ne sono due. Io sostengo questa mia teoria, cioè che le migliori interviste
sono fatte nell’ambito dove tu non sei competente. A me, fare un’intervista ad un giocatore di tennis o ad un
pugile non provo nessuna difficoltà e nemmeno nessuna curiosità, perché io so
già quello che mi rispondono. E quindi le mie due migliori interviste le ho
fatte ad Henry Kissinger, perché era fatta ad un personaggio fuori dal mondo
dello sport e per questa intervista ho anche vinto un premio. L’altra
intervista l’ho fatta a Bernie Ecclestone. Io non sono uno che segue la Formula
Uno, ma proprio queste due interviste mi hanno dimostrato che uno inesperto può
riuscire meglio di uno del ramo, perché le migliori domande nascono dalla
curiosità. Allora vengono fuori le buone domande, altrimenti andiamo sempre nel
banale.
Hai
un sogno nel cassetto?
A
questo punto li ho già realizzati, caro Gianfranco. Io mi ricordo quando sono
arrivato la prima volta a Milano, nel ’51, venivo da 5 anni trascorsi a San
Benedetto del Tronto e mi ricordo di essere andato con mio padre a vedere una
partita a San Siro ed io guardavo la tribuna stampa come se fosse un miraggio.
Un posto irraggiungibile. Dopo un anno c’ero anch’io in tribuna. Forse un
po’ di rammarico c’è nell’essere arrivato un po’ tardi alla
televisione, perché non avevo santi in paradiso. Io per aspettare di andare in
televisione ho dovuto aspettare Berlusconi, altrimenti non so se sarei mai
arrivato alla Rai. Nell’81, quando sono arrivato in Tv, avevo già 47 anni, però
a me va bene così, comunque.
Chi
vuoi ringraziare?
I
miei genitori, prima di tutto. Mia moglie che ha avuto sempre tanta pazienza e
anche Berlusconi che mi ha aperto le porte della televisione. Io credo che oltre
ad essere stato aiutato, ho aiutato a mia volta Berlusconi, perché quando è
nato Canale 5, io sono stato il primo capo dei servizi sportivi di quel canale.
Le televisioni, diciamo così, private, avevano l’immagine diciamo di
approssimazione, di goliardia. Ed invece credo di avergli dato, almeno nel
settore di mia competenza, nello sport, l’immagine di professionalità e
autorevolezza. Io devo dire grazie a Berlusconi, ma devo dire un grazie anche a
me.