Silvia Truzzi
(giornalista e scrittrice)
Milano 28.3.2022
Intervista di Gianfranco
Gramola
“E’ uscito il nuovo libro di Silvia
Truzzi “Il cielo sbagliato”, un romanzo storico che attraverso ricerche e
approfondimenti sulla storia della sua Mantova, le hanno fatto scoprire episodi
che l’hanno aiutata a intrecciare le storie dei personaggi”
Silvia Truzzi è nata a Mantova ma vive a
Milano. E’ laureata in Giurisprudenza ed è una giornalista. Lavora per il
"Fatto Quotidiano" dal 2009, anno della sua fondazione. Ha vinto il
Premio giornalistico internazionale Santa Margherita Ligure per la cultura nel
2011 e il Premio satira politica Forte dei Marmi, sezione giornalismo, nel 2013.
Tra i suoi saggi ricordiamo: Un paese ci vuole (Longanesi 2015); Perché no,
scritto insieme a Marco Travaglio (PaperFIRST 2016) e C’era una volta la
sinistra con Antonio Padellaro (Paperfirst 2019). Come romanzi, invece, ha
pubblicato Fai piano quando torni (Longanesi 2018) e Il cielo sbagliato
(Longanesi 2022).
Intervista
Mi racconti com’è nato il tuo
romanzo “Il cielo sbagliato” e perché questo titolo?
Il perché del titolo non te lo posso dire
perché è spiegato nel libro, però ti posso dire che “Il cielo sbagliato”
coinvolge la protagonista il giorno di San Valentino del 1944, un giorno di
sangue a Mantova, perché è stata la prima volta che gli americani l’hanno
bombardata. Per tanti mesi a Mantova si erano udite le sirene, si vedevano
sfrecciare in cielo gli aerei senza che fosse mai accaduto nulla: tutti
pensavano che la città sarebbe stata risparmiata, e invece purtroppo no. In
quel terribile San Valentino ci sono stati tanti morti e palazzi sono crollati.
Siccome la mia protagonista in quel momento stava vivendo un momento
felice, per una circostanza che riguardava la sua vita, questo cielo da cui
gronda sangue, che è anche così terribilmente attuale, è sbagliato.
Quindi è un romanzo storico.
Si, è un romanzo storico, non un romanzo di
ambientazione storica. Ho fatto degli studi da giornalista, quasi da detective
sulla storia della mia città e ho scoperto molti episodi che mi sono serviti,
per intrecciare le storie dei miei personaggi, che sono finzione, con quelli
invece della Grande Storia che fa da sfondo al libro. A me piacciono molto i
romanzi storici e durante il lockdown da Milano, dove vivo, sono tornata nella
mia Mantova, dove c’è la mia famiglia e dove ho vissuto fino all’università.
Quel periodo, che è stato forse l’ultimo periodo veramente epico della storia
nazionale, mi interessava particolarmente.
Non c’è nessun messaggio che vuoi
trasmettere?
No, non c’è nessun messaggio. Questa è
una storia di fiction, una storia vista molto attraverso il punto di vista
femminile e mi interessava trasmettere l’idea che le nostre nonne, che sono a
noi molto vicine, hanno vissuto da donne una realtà completamente diversa dalla
nostra. Il libro inizia con il giorno dell’armistizio della Grande Guerra,
quindi nel novembre del 1918 e finisce con la Liberazione nell’aprile del
1945: non solo le donne non votavano, ma dipendevano completamente dai loro
padri, dai loro fratelli e poi dai loro mariti. Se ci pensiamo bene, non è così
lontano quel tempo, non sono passati tanti anni, ma per noi donne di questo
millennio sembra siano stati milioni di anni fa.
Qual è il momento più creativo della
giornata per te?
La sera, dopo cena. Io la mattina sono
veramente una giornalista: mi sveglio tardi e riesco al massimo a leggere i
giornali.
Quando la scrittura ha fatto irruzione
nella tua vita?
Io penso che gli scrittori sono soprattutto
lettori. Diciamo che ho un grande debito con i miei genitori che entrambi sono
dei lettori accaniti. Mio padre non c’è più, ma in casa si parlava molto di
libri e io ho cominciato a leggere da piccola. Quando ero alle medie, papà ha
aperto un conto alla libreria Einaudi di Mantova, così che io e mio fratello
non ci facessimo problemi a spendere soldi in libri. Poi ha chiuso il conto
qualche anno dopo perché avevamo comprato troppi libri e avevamo accumulato un
debito importante! Comunque dalle scuole elementari in poi ho sempre letto molto
e sul mio comodino avevo sempre un paio di libri da leggere. Io penso che
l’amore per la scrittura sia in realtà molto intrecciato con l’amore per la
lettura.
Silvia Truzzi con Stefano Rodotà
Con quali maestri del giornalismo sei
cresciuta? Chi erano i tuoi “miti”?
Enzo Biagi, Indro Montanelli e le grandi
firme del Manifesto, Valentino Parlato, Luigi Pintor e Rossana Rossanda, anche
se per esempio con Montanelli non condividevo molte posizioni politiche, anzi
quasi nessuna. Però ricordo che i giornali di quando ero ragazzina che erano
scritti estremamente bene ed è purtroppo una cosa che si è persa perché i
ritmi industriali e del lavoro sono molto cambiati, però una volta leggere i
giornali era una buona palestra di italiano. Adesso lo è purtroppo molto meno:
per esempio usiamo un vocabolario poverissimo. Però ho scoperto che volevo fare
la giornalista quando ero all’università. Studiavo legge, pensavo che avrei
fatto l’avvocato nello studio di mio papà e invece poi ho capito che volevo
provare a vedere se ce la facevo in questo mestiere e sono stata fortunata perché
sono stata assunta molto giovane. Non ho avuto problemi, perché già allora
bisognava mettersi in fila per anni prima di essere assunti.
Mi racconti un po’ la tua gavetta e come
sei arrivata a “Il fatto quotidiano”?
Il mio primo impiego è stato a Torino nelle
cronache locali de “Il Giornale”, il primo direttore che mi ha assunto è
stato Maurizio Belpietro. Sono stata lì il tempo del praticantato e poi sono
passata al Corriere della Sera che in quegli anni apriva le cronache locali,
quindi Veneto, Trentino, Bologna, Alto Adige, ecc … e io le ho girate un
po’. Finché nel 2009 Marco Travaglio e Peter Gomez, che conoscevo bene dagli
anni di Torino, mi hanno parlato di questo nuovo giornale .Ho fatto un colloquio
a Bologna con Antonio Padellaro e così mi hanno assunta. Però avevo già una
decina di anni di esperienza interna al giornale, sapevo fare bene il desk –
il disegno, la costruzione, la titolazione della pagina - e all’epoca ero
responsabile delle pagine culturali.
Gli ingredienti per un buon giornalismo?
Gli ingredienti sono un po’ gli stessi, cioè
avere le notizie, quindi sapere le cose, andare a verificarle e a vederle sul
posto, incontrare le persone. Io per tanti anni ho tenuto una rubrica di
interviste a doppia pagina che si chiamava “Autografi”
e mi è capitato di intervistare i più grandi intellettuali del nostro
paese (questa serie poi è diventata anche un libro per Longanesi dal titolo
“Un Paese ci vuole”). Erano
interviste molto lunghe: è proprio un’altra cosa vederli di persona,
incontrarli nella loro abitazione, vedere i loro libri e anche il rapporto che
si instaura, è diverso. E poi c’è quella cosa che diceva sempre Enzo Biagi:
“I giornalisti hanno degli amici, ma i giornali, no”. Una massima ottima da
ricordare.
Hanno mai censurato un tuo articolo?
Al Fatto -che ha tantissimi difetti, come
tutti i giornali, perché sono fatti da persone - io faccio l’opinionista e ho
una rubrica nella pagina dei commenti da quando esiste il giornale. Non sono mai
stata censurata, e nessuno dei miei direttori mi ha detto: “Questa cosa non la
puoi scrivere”. Anche quando erano opinioni in manifesto dissenso con i miei
direttori. Apprezzo moltissimo questa libertà che c’è al mio giornale, è
una cosa di cui sono molto grata sia ad Antonio Padellaro che a Marco Travaglio.
Qual è stato il complimenti professionale
che hai gradito molto?
Quello di Antonio Tabucchi. Erano gli anni
del bunga bunga di Berlusconi, quando venivano fuori le feste eleganti e tutto
il resto. In un pezzo nella pagina dei commenti
avevo fatto un parallelismo con la Comédie di Balzac, in particolare con
“Splendori e miserie delle cortigiane”, Tabucchi mi scrisse una mail
dicendomi: “Devi scrivere più spesso di letteratura che sei veramente
bravissima”. Un complimento fu anche quello del professor Severino Emanuele
che ho avuto il piacere e la fortuna di intervistare più di una volta, che
amava la mia scrittura. L’idea che un intellettuale così importante e colto
si accorgesse del mio modo di scrivere, beh è stata una grande soddisfazione.
Quali sono le tue ambizioni?
Userò una frase di Corrado Stajano che una
volta mi ha detto, in un’intervista: “In questo paese tutti vogliono
diventare qualcuno e nessuno si occupa mai di quello che è”. Io non so se
voglio diventare qualcos’altro, le cose che faccio adesso mi danno molta
soddisfazione.
So che fai tante cose.
Si, lavoro al giornale, scrivo libri e da 4
anni faccio l’autrice televisiva per la trasmissione di Rai3 “Le parole”
di Massimo Gramellini. Diciamo che la mia ambizione è quella di continuare a
scrivere dei romanzi perché è una cosa che mi diverte molto.
Oltre al lavoro, curi degli hobby, delle
passioni nella vita?
Intanto la lettura come prima cosa. Poi mi
piace molto nuotare, nuoto ascoltando gli audio libri, che mi tengono molta
compagnia. Poi mi piace molto dormire. Sono una grandissima dormigliona e amo di
più dormire che mangiare. Secondo me le persone si dividono tra chi ha bisogno
di mangiare e chi ha bisogno di dormire! Io scelgo sempre il sonno, e se dormo
poco divento insopportabile…