Deborah
Ameri (giornalista freelance)
Londra 17.4.2014
Intervista di Gianfranco Gramola
Una
giornalista brava, ironica e intelligente, che è andata a Londra per fare uno
corso di inglese e ha trovato l’amore. Di Roma adora il modo di prendere la
vita dei romani e soprattutto i carciofi alla giudìa
Dice
Deborah: “Sono nata ad Alessandria nel 1973 e faccio la giornalista freelance.
Collaboro con le più importanti testate italiane (Oggi, Il Messaggero, D e XL
di Repubblica). Dal 2005 vive a Londra (in esilio per scelta e per amore) con
mio marito. Appena ho un po' di tempo mi tuffo nelle mie storie. In testa ne ho
tante, ma metterle su carta non è sempre facile. “Dire sì è una cosa
semplice” è il mio primo romanzo (spero non l'ultimo) e il coronamento di un
grande sogno. Di scrivere un libro lo avevo deciso a sei anni. Ora ne ho
quaranta, fate voi i conti. Adoro leggere (soprattutto gialli) e andare al
cinema. Il sole e il mare sono per me indispensabili (per questo mi manca
l'Italia) e un giorno andrò a vivere in una piccola casetta sulla spiaggia,
ovunque nel mondo purché sia con il mio amore”.
Intervista
Com’è nata la passione per il
giornalismo? Chi te l’ha trasmessa?
Mi
è sempre piaciuto scrivere, fin da piccola. Scrivevo lettere, scrivevo diari,
scrivevo piccole storie. Poi quando ho iniziato l’università un mio amico che
scriveva per un giornale locale mi ha chiesto: “Perché non vieni a
collaborare con noi?”. Allora ho deciso di collaborare con questo giornale
locale, bisettimanale che si chiamava “Il Novene” e da lì mi è presa la
passione per raccontare storie, personaggi o denunciare qualche cosa che non va
e disservizi vari. Qualsiasi cosa, qualsiasi argomento mi assegnavano, mi
appassionava e così mi sono trovata a farlo come lavoro. E’ andata bene fino
adesso (risata).
Quali sono stati i tuoi maestri?
Io
ho sempre letto di tutto. Forse dei maestri sono stati Indro Montanelli e Oriana
Fallaci. Questi due giornalisti mi hanno insegnato molto di questo mestiere.
Anche i grandi reporter sono stati degli ottimi maestri.
Quali sono le doti di un buon giornalista?
Le
doto sono senza ombra di dubbio la curiosità, perché se non c’è quella non
scopri niente. Se vuoi raccontare a qualcuno, devi essere tu per primo curioso.
Poi tanta tenacia, perché in Italia è un lavoro duro, nel senso entrare a
lavorare in un giornale è difficile se non sei il figlio del Direttore, o
nipote o parente. Se non hai nessuna conoscenza è davvero difficile lavorare.
Io ho fatto la scuola di giornalismo a Milano che mi ha aiutato molto, perché
tramite la scuola fai degli stage estivi e inizi a conoscere gente. Altrimenti
iniziare da zero è molto difficile inserirti in qualche redazione. Adesso poi,
come saprai, il mondo dell’editoria è un disastro. Stanno chiudendo giornali
e licenziando persone del settore, ogni giorno. Quindi le doti di un buon
giornalista sono la tenacia e la curiosità.
Leggo spesso la tua rubrica “Celebrità
in pillole” su Oggi. Fra tante celebrità che hai conosciuto a Londra ce ne
sono alcune che ti hanno colpito in maniera particolare?
L’intervista
più pazza e divertente (fatta alle due di notte) è stata con Johnny Rotten,
che dai Sex Pistols a oggi è cambiato poco. Quella che mi ha più piacevolmente
sorpresa è stata con Keith Richards, un professionista serissimo. Mi aspettavo
il solito ritardo da divo, la solita fretta nel chiudere il prima possibile e
poca voglia di raccontare. Invece abbiamo chiacchierato per un’ora e non si è
sottratto ad alcuna domanda, nemmeno alle più sconvenienti. Ma quella che mi
rimane nel cuore, perché già lo ammiravo moltissimo, è l’intervista con il
regista Ken Loach. E’ stato rassicurante constatare che è proprio come lo si
immagina attraverso i suoi film. Con lui presto siamo andati fuori tema e
abbiamo iniziato a parlare di politica e Berlusconi. Ti lascio immaginare come
si sia infiammato.
La copertina del libro di Deborah Ameri
Come mai hai lasciato l’Italia per
andare a lavorare a Londra?
Bella
domanda (risata). Sono venuta a Londra per fare uno corso di inglese, nove anni
fa. Dovevo stare qua quattro settimane. Poi sono tornata in Italia per qualche
settimana perché avevo lavoro, casa, amici… Però l’esperienza londinese mi
mancava, poi era per me un periodo fiacco, il lavoro mi aveva stufato, non
c’erano molte prospettive al giornale dove lavoravo, che era il Free Press.
Allora ho pensato di prendere l’aspettativa e tornare a Londra per sei mesi e
vedere come andava. Ho provato e poi in
quei sei mesi ho incontrato il mio futuro marito e quindi mi sono licenziata dal
giornale e mi sono fermata qui. Poi ho cominciato a fare la freelance e devo
dire che è stato molto difficile all’inizio, soprattutto per la lingua.
Che differenza trovi tra il giornalismo
italiano e quello inglese?
Un
abisso. Il giornalismo inglese è innanzitutto un business, nel senso che il
giornale deve vendere copie. I giornali a Londra non sono l’organo di un
partito, di Confindustria o di una lobby. Qui in Inghilterra è un business e
quindi c’è una concorrenza spietata. Ci sono giornalisti n gamba che tirano
fuori degli scoop, delle storie anche scomode e non rispondono quasi a nessuno.
Qui il giornalismo è libero, non come da noi in Italia che dobbiamo rispondere
al politico di turno o dalla lobby. Come dicevo è un giornalismo libero e molto
di denuncia. Una notizia scomoda, anche se va contro gli interessi
dell’editore, viene pubblicata. Bisogna dare merito al giornalismo inglese.
Ma i tuoi genitori che futuro speravano
per te?
Di
sicuro non questo. Io vengo da un paesino piccolo che si chiama Gavi (un borgo
impigliato tra le colline piemontesi e il mare della Liguria), dove non c’è
niente e dove il futuro è abbastanza incerto per tutti. Mio padre ora è in
pensione ma ha fatto l’operaio e mia madre fa la casalinga. Non so cosa loro
si aspettavano per me. Sicuramente non che io continuassi gli studi, che andassi
all’Università e tanto meno che poi proseguissi per Milano a fare la scuola
di giornalismo e che poi andassi all’estero.
Qual è il tuo motto?
Carpe
diem.
Quali sono i tuoi hobby quando non lavori?
Quando
non lavoro vado al cinema, leggo libri o ne approfitto per vedere amici. Mi
piace stare fuori, perché il lavoro mi prende tanto tempo.
A chi vorresti dire grazie?
Ai
miei genitori prima di tutto perché mi hanno permesso di avere una educazione e
quindi di fare quello che volevo. E poi ad alcune persone che durante la mia
carriera e nel mio lavoro mi hanno aiutato in modo disinteressato. Sono stati
pochi ma fondamentali e questo non
lo dimenticherò mai.
Parliamo un po’ del tuo libro. Com’è
nata l’idea di scrivere “Dire si è una cosa semplice”?
L’idea
è nata perché ogni volta tornavo al mio paesello, Gavi, vedevo cose che prima
quando ci vivevo non notavo. Vedevo una vita completamente diversa dalle grandi
città. Io ho vissuto a Milano tanto tempo, ho vissuto un pochino anche a Roma e
adesso sto a Londra. Poi mi sono detta: “Il libro Acciaio, di Silvia Avallone,
parla di provincia”. Ho pensato: “Perché non raccontare la vita di paese,
raccontare la provincia potrebbe essere interessante”. Così ho iniziato a
scrivere questo libro, senza sapere se poi l’avrei finito. Poi sono andata
avanti e l’ho finito.
Nel tuo racconto, vuoi lanciare qualche
messaggio?
Penso
che ci sia un messaggio di riscatto. Non importa dove nasci o da dove parti,
perché se lo desideri fermamente puoi arrivare dove vuoi. E anche se non hai
tante possibilità sopra te, le puoi cercare.
Un motivo per cui uno dovrebbe leggere il
tuo libro?
Perché
penso che dentro ci sia la vita e chiunque leggendolo si può riconoscersi un
pochino. Dentro c’è l’amore, c’è la perdita, il dolore e ci sono i
sogni. E’ un libro che fa riflettere un po’ chiunque.
Per uno che scrive, quando arriva
l’ispirazione? Qual è l’orario più fertile della giornata?
Arriva
quando arriva (risata). Per me
arriva durante la pausa pranzo o quando ho finito di scrivere i pezzi per i
giornali, la sera, cioè quando sono più tranquilla. Quando non ho scadenze,
orari da rispettare, pezzi da consegnare e quindi sono più rilassata. Quando
sono rilassata mi diverto a scrivere e sono anche più concentrata. Diciamo che
scrivo con il sorriso.
A chi volesse avvicinarsi al mondo del
giornalismo, che consigli daresti?
Deve
essere davvero determinato per voler fare quel lavoro lì, perché ti
scoraggiano in tutti i modi possibili. A volte ci sono dei ragazzi che mi
scrivono, mi chiedono consigli. Io sono ottimista. Se tu chiedi a dei
caporedattori cinquantenni, ti dicono e ti consigliano di lasciar perdere.
Bisogna sapere trovare il modo giusto. Per me è stata la scuola di giornalismo,
perché non avevo conoscenze e neanche contatti. Per un altro il modo giusto
potrebbe essere cominciare facendo la gavetta, per strada, provare a mandare
delle proposte a qualche giornale locale, anche se ti pagano veramente poco,
tipo 5 euro a pezzo. Quindi secondo me la scuola di giornalismo è ancora un
buon mezzo per farsi strada. Bisogna entrarci, nel senso che c’è un esame di
selezione. Però se riesci ad entrare, impari molto e hai accesso alle
redazioni, che è importante.
Che differenza c’è fra giornalista e
pubblicista?
Non
c’è differenza. Se tu fai informazione non c’è più questa grande
distinzione. E’ tutto molto più sfumato. Anche in Inghilterra non c’è
grande differenza.
Parliamo di Roma?
Parliamo
di Roma, la mia città preferita.
Quando ci sei venuta la prima volta e come
ricordi l’impatto?
Alla
scuola di giornalismo vivevo con una romana della Rai. Era una giornalista del
Tg2 . In primavera siamo andati a Roma, lei mi ha portata a casa sua. Mi sembra
che era il 1998 o l’anno dopo. Era la prima volta che andavo a Roma e me ne
sono innamorata subito. Lei poi aveva casa in via del Corso, nel cuore di Roma,
proprio nel centro storico. Che meraviglia. Il mio luogo preferito però è
Trinità dei Monti. Difatti quando vengo a Roma, vado in quel posto, mi siedo
sui gradini della scalinata e mi godo il panorama e la zona di piazza di Spagna.
Mi piacerebbe un domani tornare in Italia e vivere nella Città Eterna,
all’ombra del Cupolone.
Cosa ti piace della città eterna e
viceversa?
Mi
piacciono i romani, al loro ironia e il fatto che prendono la vita con molta
calma e non sono mai agitati come i milanesi e non sono mai puntuali come i
milanesi o sotto pressione. Sono sempre lì a fare le battute, a ridere… sono
persone da invidiare. Non mi piace il traffico di Roma… è troppo caotico.
Londra è grande, ma ti assicuro che non c’è tutto questo caos continuo e il
parcheggio selvaggio in doppia fila, code infinite, ecc… C’è qualcosa che
non funziona in questo settore.
Cosa ne pensi del film Oscar “la grande
bellezza”?
A me
è piaciuto molto. C ‘è una fotografia bellissima della Città Eterna. Io
l’ho visto a Londra e mi sono proprio emozionata, perché mi sembrava di
essere lì, nella mia città preferita.
La cucina romana ti ha conquistata?
Mangerei
di tutto, Gianfranco, ma purtroppo sono celiaca. Quindi tutte quelle buone paste
che fanno, l’amatriciana in testa, non le posso mangiare. Però il mio piatto
preferito è il carciofo alla giudia. Buonissimo. Per me è il massimo.
Hai
un locale preferito?
Non ricordo il nome, ma di solito vado con delle mie amiche a Trastevere.
Un consiglio al sindaco di Roma?
Non
vivendoci è difficile dare dei consigli. Forse quello di fare qualcosa per il
traffico, ma quello è un grosso problema per tutte le grandi città.