Furio Colombo (giornalista e scrittore)
Roma 17.1.2017
Intervista di Gianfranco Gramola
Un
maestro di giornalismo, un apprezzato protagonista dell’informazione
internazionale. In questa intervista parla della sua carriera nei giornali, dei
suoi progetti (Ho in mente un nuovo
libro e ne ho un altro subito dopo) e dei suoi ricordi di Pier Paolo Pasolini
Marco Furio Colombo è nato a Châtillon
(Valle d’Aosta) il 1° gennaio del 1931. Giornalista e scrittore, ha diviso la sua vita fra
Italia e Stati Uniti. È stato giornalista ed inviato di molte testate e
direttore dei programmi culturali della Rai-Tv ed è autore di numerosi saggi e
romanzi. Nel 1963 è tra i fondatori del Gruppo ‘63. All’inizio degli anni
‘70 partecipa alla fondazione del DAMS di Bologna dove insegna dal 1970 al
1975. Negli Stati Uniti è stato corrispondente de La Stampa e di La Repubblica.
Ha scritto per il New York Times e la New York Review of Books.E’ stato
presidente della Fiat USA, professore di giornalismo alla Columbia University,
direttore dell’Istituto Italiano di Cultura. Direttore storico de L’Unità.
È stato senatore e deputato del Partito Democratico nelle ultime due
legislature.
(breve
biografia tratta da “Il Fatto Quotidiano”)
Ha detto:
- No, la vita di Pasolini non si è basata
sull’ “eccesso”. È stata una vita piena, densa, intensa, drammatica,
trasgressiva ma non eccessiva.
-
Sono nato a Chatillon in Val d’Aosta, ma ho vissuto sempre a Torino. Una vita
viva culturalmente e molto avvertita politicamente. L’unico schiaffo che ho
avuto nella mia vita è stato quando sono tornato da scuola vestito da figlio
della lupa. Mia
madre ottenne
di esonerarci dalle adunate fasciste del sabato pomeriggio.
-
Il livello di tassazione, in generale e nei vari settori e attività della vita,
è forse il compito più delicato e difficile del governare e richiede una
teoria economica o una visione politica alla quale appoggiarsi. (Il Fatto
Quotidiano 22.19.2015)
-
La mia esperienza giornalistica non è mai stata noiosa. L’intellettuale non
può essere messo alla stregua di un turista che colleziona souvenirs, ricordi
e, inoltre, per me non è determinante ciò che ho fatto in passato, quanto ciò
che faccio nel presente.
Curiosità
-
È stato anche l'autore della famosa ultima intervista a Pier Paolo Pasolini,
rilasciata dallo scrittore soltanto poche ore prima della sua brutale uccisione
all'idroscalo di Ostia, e pubblicata postuma su Tuttolibri l'8 novembre 1975.
- E’
sposato con la scrittrice americana Alice Oxman. Hanno una figlia, Daria
(medico).
- Al
D’Azeglio di Torino ebbe come compagno di scuola Edoardo Sanguineti, con cui
formò un gruppo culturale - letterario al quale più tardi si aggiunsero
Umberto Eco e Gianni Vattimo.
Intervista
Come
è nata la passione per il giornalismo? Chi te l’ha trasmessa?
È
nata dal fatto che c’erano molti giornali in casa, ho sempre visto leggere
giornali in famiglia. La prima cosa che ricordo di mio padre era che prendeva il
giornale “ La Stampa”. Noi vivevamo a Torino e “La Stampa” è il
giornale di Torino. Qualche volta mi facevo leggere i titoli che non capivo, ma
mi piacevano lo stesso. Credo che il punto originario di questa passione sia
questo e ho sempre pensato ai giornali come fonte di
realtà. Le avventure della mia vita infantile sono stati i giornali,
perché io li vedevo così di frequente, da “ La Stampa”
al “Corriere”, poi mi ricordo “La gazette de Geneve” che io
credevo fosse La gazzetta di Genova, invece era un giornale svizzero. Poi i
libri d’avventura, che parlavano di paesi lontani, di altri modi di vivere e
che mi hanno permesso di conoscere, appunto, altri modi di vivere. Quindi vedevo
il giornalismo come un’avventura. E questo si è formato in me molto presto.
Chi
sono stati i suoi maestri?
Ricordo,
da bambino e da giovane lettore, Paolo Monelli, Virgilio Lilli e per La Stampa di Torino
Carlo
Casalegno e poi Indro Montanelli. Appena ho cominciato a scrivere i maestri sono
stati Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari. I grandi erano
quelli, mi interessavano perché mi piacevano e scrivevano bene. L’avventura
tipica era che cominci a leggerli e continui a leggerli.
Quali
sono le doti di un buon giornalista?
Di
avere una capacità chiara di vedere un frammento di realtà da raccontare bene,
come una buona storia e poi riuscire a sapere allargare l’inquadratura in modo
che quel frammento di realtà abbia almeno un’implicita consonanza con
qualcosa di più grande. Il paese, l’epoca, la classe sociale e la situazione
sulla quale si sta lavorando.
Lei
ha sempre scritto ciò che voleva o qualche volta è stato censurato?
Censurato
mai. Non so perché. Sono stato fortunato nei giornali. All’inizio ho lavorato
a “Il Mondo”, poi per 20 anni a “ La Stampa”, poi all’Espresso, a
“Panorama”, all’Europeo, a “Repubblica” e ho diretto l'Unità dal 2001
al 2005. Ora a “Il
Fatto quotidiano”. Alcune delle riviste dove ho lavorato non ci sono più.
Lei
ha intervistato Pier Paolo Pasolini. Ha un aneddoto o un suo ricordo?
Non
ne ho, rispetto a quelli che ho scritto. Pasolini non era un personaggio da
aneddoti, perché aveva una sua composta serietà. Poi la nostra amicizia era
un’amicizia di gruppo. Io lo vedevo molto, ma con Moravia, con Elsa Morante e
Dacia Maraini. Lo vedevo con loro perché
a lui piaceva essere in
gruppo. Avevamo case vicine, andavamo al mare negli stessi posti. L’ho
visto molto quando è venuto negli Stati Uniti, perché io già vivevo lì e
questo ha reso la nostra amicizia un po’ più personale. Però il punto era
sempre il gruppo che ruotava intorno a Moravia e in cui Pasolini era l’altro
grande.
In certi momenti poi il Pasolini della poesia, il Pasolini del cinema era
molto più grande. Ho un ricordo. Noi avevamo una casa a Sabaudia, vicino a
quella di Moravia, che era anche casa di Pasolini. Quando Moravia e Dacia
Maraini erano in viaggio da qualche parte, Pasolini veniva a stare da noi.
Avevamo la bambina piccola e lui era molto carino con nostra figlia. Era molto
gentile,
comprensivo e
affettuoso in modo spontaneo. Abbiamo passato delle belle serate facendo
lunghe chiacchierate che erano sempre o sui film o su eventi su cui
avrebbe scritto, quindi si potrebbe dire in generale di letteratura, mai
personali.
Lei
ha scritto parecchi libri. Ha in mente una nuova pubblicazione?
Si,
ho in mente un nuovo libro, ma non voglio anticipare niente perché prima
aspetto di averlo finito. Ci sto lavorando per finirlo e ne ho un altro subito
dopo. Ho già raccolto tutto il materiale che mi serve e quindi andrò di
seguito.
Per
lei scrivere corrisponde ad un’urgenza personale, una valvola di sfogo o una
sorta di dovere?
Qualche
volta, giornalisticamente parlando, è un dovere. Per esempio ho conosciuto o
visto di persona certe circostanze. Sfogo non direi, perché ho scritto talmente
tanto in vita mia, che mi sono sfogato abbastanza (risata). Diciamo che scrivere
è una cosa che mi piace e continua a piacermi. E’ un po’ simile a quando si
sfogliano i taccuini di quei artisti che sono bravi a disegnare e per ogni cosa
che vedono tracciano uno schizzo. Ogni cosa che vedono l’annotano in forma di
disegno. Evidentemente lo fanno perché gli piace e poi a volte ne traggono un quadro. Al giornalista o al letterato che è molto vicino al
giornalismo, pensiamo ad Arbasino, viene naturale per ogni cosa che accade,
prenderne nota che poi magari diventa un racconto, oppure un articolo, oppure un
saggio.
Parliamo
un po’ di Roma, caro Furio. Lei è di Torino. Quando è venuto a Roma?
Prima
di Torino la mia città era Parigi. Perché? Perché c’era un
treno notturno da Torino a Parigi che costava pochissimo, con il quale si poteva
saltare soltanto un giorno di scuola. Parlo degli anni '50. Eravamo Umberto Eco ed io. Aspettavamo il
treno notturno a Porta Nuova, cercavamo una terza classe, di quelle con le
panche di legno dove c’era lo scompartimento libero e la panca di legno
diventava il nostro letto. Dormivamo fino a Parigi, passavamo la giornata intera
a Parigi a conoscere gente, a cercare persone che ritenevamo famose, a fare
incontri, a vedere gallerie, a cercare libri e la sera tornavamo alla stazione e
sempre in terza classe tornavamo a Torino. Praticamente i nostri genitori non si
accorgevano di queste
scappatelle, perché bastava dire loro che uno andava a stare
dall’altro. Quindi con una notte di viaggio, una giornata a Parigi e
un’altra notte di viaggio, vivevamo un’avventura splendida. Questo precede
il mio venire per la prima volta a Roma, anche se i miei genitori mi ci avevano
portato più volte da piccolo, soprattutto mio padre. Quando mio padre aveva
qualcosa da fare a Roma, mi faceva un regalo portandomi con lui. Anche mia madre
quando veniva a trovare la sua famiglia, che era molto numerosa, mi portava con
sé a Roma. Quindi questa impressione di Roma, vista da bambino, siccome i
bambini sono molto campanilisti, mi faceva vedere Roma come meno bella di
Torino. C’è voluta l’età matura, dopo i 18 anni, per capire che cosa
grandiosa fosse Roma e provare
l’emozione nel vedere per la prima volta il Pantheon, di attraversare
per la prima volta il Foro Romano, di prendere contatto con quello che era
davvero Roma. Quando ho dovuto abitarci per lavorare alla Rai, una cosa
bellissima che mi piaceva fare e che non aveva mai fine, era di fare delle
lunghissime passeggiate attraverso i vicoli di Roma o quartieri che non si
frequentano mai, per cui non ci sono ragioni per andarci. E da allora Roma ha
continuato a crescere in me, come qualcosa che mi è apparso davvero
straordinario. I miei andare e venire
dall’America finivano poi con i ritorni a Roma. Amo moltissimo New
York, però arrivare a Roma è sempre un piacere.
Quali
sono state le tue abitazioni romane?
Due
sono state le abitazioni a Roma. Ho abitato in via Gregoriana e poi quella in cui abito adesso,
a due passi da
piazza del Popolo.
C’è
un angolo di Roma a cui sei
molto legato?
Certo,
quello che da via Sistina entra in via Gregoriana, passando davanti alla casa
di Goethe. All’inizio ho vissuto a Roma da solo e quindi
c’era tutta la vicenda dell’essere giovani, poi mi sono sposato in America e
in quella zona di Roma ho portato mia moglie, è nata la mia bambina e quindi mi
è carissimo quell’angolo di Roma. Ricordo ancora quando uscivamo dal palazzo
con la bambina piccola per andare a fare delle passeggiate al Pincio, per andare
verso Trinità dei Monti e scendere la gradinata o andare al parco.
Per
uno scrittore Roma può essere fonte di ispirazione?
Questo
non mi è mai accaduto. Neppure New York a dire la verità è stata fonte di
ispirazione, tranne in due libri: "Le donne matte" (Feltrinelli 1964)
e "La città profonda" (Feltrinelli 1975). Certamente in molte cose che ho scritto
c’è molta New York, c’è
la strada in cui l’evento si svolge, c’è la casa, c’è la persona con cui
avviene il fatto. Mi è sempre piaciuto muovermi molto e siccome il lavoro che ho fatto in tutti questi decenni
mi chiedeva di muovermi molto, venti, come correnti d’aria, che vengono da un
punto all’altro, più o meno si intersecano nelle varie prove diverse di
scrittura. Ci sono dei punti che hanno segnato il mio immaginario e possono
anche averlo influenzato, al di là della consapevolezza.
Attualmente
com’è il tuo rapporto con Roma?
Ottimo.
Credo che Roma sia, insieme a Parigi, Londra e New York, una delle città
davvero internazionali del mondo e nessun’altra. Amo queste quattro città ma,
al momento e da molti anni, prevalentemente Roma.