Toni
Capuozzo (giornalista)
Milano 25.5.2014
Intervista di Gianfranco Gramola
Un
giornalista cresciuto con le illusioni del ’68 e il mito della rivoluzione
comunista. La sua gioventù l’ha vissuta girando il mondo e da giornalista ha
fatto l’inviato nei più caldi scenari internazionali. In questa intervista
racconta anche il suo rapporto con Trento e com’è finito nella lista nera di
Saddam Hussein
Toni
Capuozzo (all’anagrafe Antonio Capuozzo) è nato a Palmanova (Udine) il 7
dicembre del 1948. Padre napoletano e madre triestina, ha vissuto per un anno a
Cervignano nel Friuli, dove risiedeva la famiglia all'epoca. Consegue la maturità
classica presso il Liceo Ristori di Cividale; si laurea in sociologia
all'Università di Trento. Inizia l'attività di giornalista nel 1979, lavorando
per Lotta Continua, per la quale segue l'America Latina, e diviene
professionista nel 1983. Dopo la chiusura di Lotta Continua scrive per il
quotidiano Reporter e per i periodici Panorama Mese ed Epoca.
Durante la Guerra delle Falkland (1982) ottiene un'intervista esclusiva col
grande scrittore Jorge Luis Borges. Successivamente, si occupa di mafia per il
programma Mixer di Giovanni Minoli.
È stato inviato per la trasmissione “L'istruttoria”. In seguito, collabora
con alcune testate giornalistiche del gruppo editoriale Mediaset (TG4, TG5,
Studio Aperto), seguendo in particolare le guerre nell'ex Jugoslavia, i
conflitti in Somalia, in Medio Oriente e in Afghanistan. Vicedirettore del TG5
fino al 2013, dal 2001 cura e conduce “Terra!”, settimanale del TG5, per
dieci anni, e poi in onda su Retequattro, sotto la direzione di Videonews. Tiene
su Tgcom24 la rubrica Mezzi Toni. Attualmente è giornalista free lance. Attività
teatrale Nel 2009 Capuozzo ha
messo in scena, con Mauro Corona e il complesso musicale di Luigi Maieron,
"Tre uomini di parola", uno spettacolo i cui proventi finanziano la
costruzione di una casa-alloggio per il centro grandi ustionati di Herat
(Afghanistan). Nella stagione 2009-2010 è stato direttore artistico del «Festival
del Reportage» di Atri (Abruzzo). Nel 2011, con Vanni De Lucia, ha messo in
scena "Pateme tene cient'anni", una storia di padri e di patrie.
Premi
1983
Premio Salone del mare di Viareggio - 1993 Premio Brianza – 1999 Premio Saint
Vincent per il servizio “Il dramma delle foibe”, Premio speciale
Ilaria Alpi per i servizi da Belgrado - 2000 Premio Flaiano, Premio Nazionale
Esercito - 2002 Premio Ernest Hemingway, Premio Max David, Premio Antonio Russo,
Premio Città di Fonte Nuova, Premio internazionale Targa d'oro della Pace, a
Sarajevo, Premio La Ragazza di Benin City, Torino, Premio Cisterna d'argento,
Ragalna – 2003 Premiolino
Terrazza Martini, Premio Arrigo Benedetti, Premio Campania per la pace e i
diritti umani - 2004 Premio Val di Sole, Premio Arpino Cicerone, Premio Media
Watch Bayer, Premio città di Arona 2005 Premio speciale di giornalismo
Sodalitas, Premio Carlo Casalegno, Premio giornalistico Livio Zanetti - 2006
Telegatto, Ambrogino d'oro, Premio Obiettivo Europa, Premio giornalistico
"Città di Salerno", Premio Agape, Giornalista dell'anno ANA - 2007
"Cinque stelle per il giornalismo" Milano Marittima (Ra), Premio
Oriana Fallaci, Premio Gran Galà della danza e dello sport di Ravenna, Premio
Cinque Terre, Premio Bacco d'Oro di Tradate, Premio Racconti dal mondo, Napoli,
Premio PulciNellaMente - 2008 "Premio per la Pace città di Noceto" (PR),
Premio Cesco Tomaselli, Premio Lamberti Sorrentino, Premio Radicchio d'oro. Il
libro Adios riceve il Premio Fregene, il Premio Albòri e il Premio Maria
Grazia Cutuli di San Severo - 2009 Premio Giorno del Ricordo, Grolla d'oro Saint
Vincent - 2010 Premio Hrant Dink, Premio "Giovanni Colombo" dei
Giovani Albergatori, Premio "Gran Sasso", Premio Caravella del
Mediterraneo Bari, Premio Lucio Colletti, Premio Argil Frosinone, Torre
d'Argento Scafati - 2011 Premio Giorgio Lago, Premio Ischia inviato speciale,
Premio Verde Ambiente Sorrento, Tartufo d'oro Sant'Angelo in Vado, Premio
Nassirya Montesilvano, 2012 Premio Renzo Foa, Bettona (PG), Premio Madesimo -
2013 Premio Maurizio Laudi, Diano Marina (SV) - 2014 Premio Paolo Diacono,
Cividale.
Pubblicazioni
Il
Giorno dopo la guerra (1996) - Occhiaie di riguardo (2007) – Adios ( 2007) -
Dietro le quinte - Racconto inserito in Dispacci dal fronte Reporters sans
frontières (novembre 2007) - Le guerre spiegate ai ragazzi (2012).
Ha
detto:
-
Sono
sempre stato attratto dai dettagli marginali, dalle storie di persone normali e
da quelli che stanno ai margini della scena.
-
A
volte mi ritrovo a rimpiangere quei tempi fatti di cose genuine, normali e di
ideali per i quali era lecito sognare e combattere ogni giorno.
- Non
c’è nulla che possa censurare
gli occhi e la mente. Certe piccole verità emergono sempre.
- Ero
abbastanza giovane quando mio padre Pietro è morto. E adesso mi ritrovo a
pensare alle cose che mi diceva e a cui spesso reagivo con l’insofferenza e la
presunzione classica di un adolescente.
Curiosità
-
Tiene
tre rubriche sulla car5ta stampata: una sul quotidiano Il Foglio, una sul
mensile del Touring Club Italiano, una su “Riders”.
- Prima
di diventare giornalista ha fatto il bagnino-ombrellaro alla spiaggia di Ostia e
il disegnatore di Madonne sui marciapiedi di Marsiglia.
- http://mezzitoni.tgcom24.it/
è
il blog curato da Toni
Capuozzo, una finestra aperta su ciò che
succede nel mondo.
Intervista
Mi
racconti il tuo periodo trentino? Le scuole che hai frequentato nel capoluogo
del Trentino, dove vivevi, ecc…
Mi
sono iscritto all'Università di Trento (sociologia) nel 1969. Ho scelto Trento
perché mi sembrava un posto pieno di novità ed era un posto interessante. Non
avevo in mente di fare il sociologo, non pensavo a questa professione. Mi
incuriosiva e mi attirava il fatto che allora veniva chiamata “università
critica” e quindi sono stato attirato dal clima sociale e politico di quella
facoltà più che dall’iter degli studi. Mi sono iscritto nel ’69 però ho
sempre frequentato poco l’università perché nel frattempo lavoravo. Nel
periodo universitario ho fatto diversi lavori, da operaio edile a insegnante nei
corsi per apprendisti nel settore del legno. Facevo le ore di italiano e cultura
in generale. A Trento non ho mai avuto una casa fissa. Ho dormito per qualche
notte in quello che allora era l’ospedale Santa Chiara, quello dopo la
birreria Pedavena. Poi sono stato ospite di amici qua e là, poi per un periodo
c’era una forma di aiuto per studenti in qualche albergo. Io stavo in uno che
mi pare si chiamasse albergo Trieste. Episodi che hanno fatto la storia nella
facoltà di Sociologia io non ne ho vissuto neanche uno ed è abbastanza ironico
che poi come giornalista uno si suppone che arrivi presto sulla notizia e invece
sono arrivato fuori tempo massimo. Tutte le cose che hanno lasciato un segno, un
ricordo bello o brutto non importa, io ne ho sentito solo parlare, non li ho
visti. Penso al corteo con i due missini fatti ostaggio, l’accoltellamento
degli operai alla Ignis o la contestazione quaresimale nella cattedrale. Ho
frequentato la facoltà in cui c’era l’eco di queste cose. C’era ancora il
movimento studentesco e mi ricordo Marco Boato con cui ho continuato a sentire e
a frequentare. Mi ricordo Mauro Rostagno e mi ricordo Renato Curcio che allora
era un tipo silenzioso e che faceva una rivista che si chiamava “Lavoro
politico”. Per me quello è stato un periodo che era una specie di terra di
nessuno perché c’era il picco del movimento studentesco e non c’era ancora
Lotta Continua o tutto quello che è
venuto dopo.
Hai
lasciato degli amici a Trento?
Si!
Però più che trentini sono amici legati alla facoltà, tipo Loris Lombardini e
l’amico Rutigliano, che credo insegni alla facoltà. Uno degli amici trentini
che ricordo con molto piacere ma
non ricordo più il nome e che ho frequentato per un periodo in Germania, era un
operaio idraulico, molto grosso, che era stato latitante proprio per i fatti
legati al corteo della Ignis. Trento era una città che vedeva nei sociologi un
elemento di disturbo e quindi una città molto diversa da quella odierna.
Quando
hai capito che il giornalismo sarebbe stato il tuo mestiere?
Molto
tardi, direi che è stato proprio un caso. Dopo i quattro anni canonici, mi
mancavano credo tre esami e basta, sono andato a fare il servizio militare e
approfittando anche di questi esami che mi mancavano ho finito gli esami
prendendo delle licenze. Il giorno della laurea per me è stato memorabile ma
non per la laurea in sé, ma per quanto l’ho fatta lunga, se calcoli che mi
sono iscritto nel 1969 e ho preso la laurea nel 1976, quindi dopo sei anni. Era
un peso che volevo togliermi. Ricordo che mi sono seduto di fronte alla
commissione, stavo per iniziare e il capo dei bidelli ha spalancata la porta
dicendo: “Hanno sequestrato l’onorevole Moro”.
Puoi immaginare lo sconcerto di tutti e il disorientamento. Io, sapendo
che Moro insegnava a Roma, dissi una cosa di cui poi mi sono vergognato un
po’: “Credo che il prof. Moro vorrebbe che continuassimo le tesi di
laurea”. E così è andata anche se è stata una cosa un po’ sbrigativa e
come puoi immaginare, priva di soddisfazione da parte di tutti, perché eravamo
tutti quanto storditi da quella brutta notizia.
Quali
sono le doti di un buon giornalista?
Le doti sono piuttosto semplici ma rare. Uno:
non avere pregiudizi. I pregiudizi sono una cosa molto radicata, anche se credo
che non sempre i pregiudizi sono cattivi, perché ci sono anche quelli buoni. Io
credo che questa sia la prima cosa che va accompagnata
alla curiosità, altra dote del buon giornalista. Noi abbiamo un’idea della
curiosità poco nobile, ad esempio
quando diciamo “la curiosità è femmina”. In questo detto facciamo un torto
sia alla femmina che alla curiosità. La curiosità dovrebbe essere accompagnata
da questa assenza di pregiudizi, cioè di cercare sempre di capire qualcosa e
non andare a cercare nella realtà una conferma a dei giudizi che discendono da
una visione del mondo, da una fede politica. E’ chiaro che ci sono alcune
scelte che dovrebbero informare il cittadino prima ancora che l’informatore,
che è stare dalla parte degli indifesi, dei deboli, della democrazia. Questi
sono dei pregiudizi positivi. A parte questo, la ragione, il torto, la
colpevolezza, l’innocenza, credo che su tutte queste cose il buon giornalista
deve accostarsi con la mente sgombra. Altra dote è il buon senso. Un
giornalista non dovrebbe arrogarsi il compito di predicatore, di disegnatore di
mondi futuri. Deve avere una certa dose di buon senso sapendo che non è
un’artista, ma un artigiano. Quello dell’artigiano è un lavoro molto bello
perché comporta una sapienza che non viene dalla scuola ma dall’esperienza.
Un buon giornalista deve essere un artigiano della notizia, per cui contano
naturalmente la scrittura, la velocità nello scrivere e tutti gli elementi
strettamente legati alla professione, ma soprattutto la capacità di usare il
buon senso che è l’elemento base di un giornalista valido al quale io
aggiungo anche un pizzico di umiltà, anche se è una parola un po’ fuori
moda. Umiltà non vuol dire stare con il cappello in mano davanti al sindaco o
davanti al Presidente del Consiglio o al banchiere di turno, ma vuol dire
cercare di migliorarsi sempre, di non pensare di essere arrivato e quindi di
stare con i piedi per terra. Credo che quando uno pensa di aver finito di
imparare, quello è il momento in cui è vecchio, perché pensa di sapere già
tutto. Deve persistere la voglia di studiare, di capire, di approfondire per
affrontare molte storie diverse, molte situazioni diverse, perché puoi
occuparti un giorno di cultura e il
giorno dopo di pesca e quindi devi studiare, capire e uno non dovrebbe essere
mai compiaciuto, dovrebbe sempre pensare che la prossima volta farà meglio.
Avere questa umiltà che vale però anche nei confronti del lettore. Credo che
il grande giornalismo sia piuttosto semplice, tende a farsi capire, non a essere
misterioso o con un linguaggio complicato. Si può fare alto giornalismo anche
essendo molto semplici. Io sono sempre molto contento quando trovo un operaio
che mi dice che segue sempre i miei programmi come sono contento quando me lo
dice un professore universitario. Credo che saper parlare a entrambi sia molto
importante per un giornalista.
Oltre al giornalista hai fatto l’inviato
di guerra. Cosa ti ha insegnato questa nuova
esperienza?
Dal
punto di vista professionale mi ha insegnato molto perché le guerre sono un
po’ come le catastrofi naturali. In quelle occasioni vengono fuori il peggio e
il meglio dell’uomo perché il male e la crudeltà che esistono in tempi
normali sono un conto, perché puoi avere a che fare con l’omicida, con il
truffatore, con il corruttore, con chi inganna i cittadini. Il male in guerra è
esattamente la legittimazione di quello che in pace è reato e quindi uccidere
diventa un merito. Mi ha insegnato anche la generosità. In tempi di pace e in
tempi di normalità, fosse pure una normalità fatta di crisi, ma se uno di noi
può fare un gesto di generosità piccolo o grande che sia, è una cosa bella e
che fa bene. Essere generosi in un momento in cui manca tutto o quasi tutto è
un’impresa ardua, ma essere pacifici quando si è circondati dalla guerra è
una sfida molto più difficile. Dal punto di vista giornalistico è chiaro che
frequentare dei luoghi in cui le passioni sono così aperte, dispiegate,
profonde e terribili mi hanno
insegnato molto. Dal punto di vista umano mi ha insegnato intanto che non esiste
il bianco e il nero, ci sono sempre vaste zone grigie, ci sono sempre delle
persone buone anche dalla parte dei cattivi e persone cattive dalla parte dei
buoni. E’ sempre difficile tracciare una linea netta come nei film in cui i
buoni sono da una parte e i cattivi dall’altra. Mi ha insegnato dal punto di
vista umano e personale, la tranquillità la modesta situazione di cui godiamo,
anche se tormentata da crisi e da problemi che spesso tendiamo a drammatizzare e
spesso mi viene da pensare che non sappiamo quanto siamo fortunati. E’ un
po’ come quando vai a trovare un amico all’ospedale e capisci poi che le
cose che contano nella vita non sono l’auto e il lusso. O come quando c’è
il figlio di un tuo amico che sta male e tu torni a casa e guardi i tuoi figli
sani. Insomma capisci che le cose che contano nella vita sono altre. Ecco, la
guerra è un possente promemoria di questo.
Come
inviato hai girato parecchie zone calde, dall’ex
Jugoslavia, Somalia, Iraq, Afghanistan, ecc…
Hai mai visto la morte in faccia?
Da
inviato vivi molte situazioni di pericolo e mi è successo molte volte. Io sono
un po’ fatalista e quindi credo anche un po’ nel destino. Credo ovviamente
che contino molto la precauzione, la prudenza, l’attenzione, l’esperienza.
Oggi sono molto diverso da quando avevo trent’anni. Però credo che conti
molto anche la fortuna, il caso. Io credo di essere stato aiutato per lunga
parte dal fatto di lavorare con degli operatori e quindi sentirmi anche
responsabile di un’altra persona che non è lei a decidere dove andare. Sono
io che dico “andiamo là” o “adesso torniamo in albergo”. Ora il fatto
di avere la responsabilità di qualcun altro e che non sia mai successo nulla di
brutto è anche una bella soddisfazione o quando è successo qualcosa ce la
siamo cavata. Io non ho mai avuto una visione eroica nel mio lavoro di inviato
di guerra. Ho sempre fatto il mio dovere senza mettere a rischio i miei colleghi
operatori.
E’
vero che eri nella lista nera di Saddam Hussein?
Si!
E’ vero. Sono andato in Iraq per il referendum
che vinse con il 99,9 per cento e dissi le cose che andavano dette. Ho
detto che si trattava di una buffonata. E naturalmente sono finito nella lista
per cui nonostante avessi cercato agganci a tutti i livelli con persone che
erano più vicine al regime, poi non mi fu più concesso il visto. Sono
abbastanza fiero di questa cosa e non credo di essere stato ingenuo. Credo che
bisognerebbe andare a vedere i servizi che vennero fatti allora su quel
referendum e paragonarli uno con l’altro e capire chi diceva quel po’ di
verità possibile. Io ero a Belgrado durante i bombardamenti della Nato, ero a
Tripoli durante la guerra a Gheddafi… se vuoi continuare a fare il tuo lavoro
devi tenere sempre presente che c’è sempre qualcuno che controlla e può
interrompere il tuo lavoro bruscamente. E’ sempre una specie di partita a
scacchi insomma. Quella volta in realtà non avevo la consapevolezza che mi
avessero negato il visto. Inoltre l’Iraq, soprattutto in Italia, aveva molto
occhi e molti orecchi.
Hai
ricevuto un sacco di premi per il tuo lavoro. A quale sei più legato?
Quello
a cui sono più legato a dire la verità è un premio che ho vinto quando ero al
liceo, di narrativa per studenti, un premio studentesco, perché mi ha aiutato
moltissimo, perché ero un pessimo studente e il fatto di aver vinto un premio
cittadino, allora stavo a Udine, mi è stato d’aiuto nelle materie in cui
andavo malissimo, come la matematica, la fisica e anche la filosofia. Non era un
premio giornalistico, però era un premio che aveva a che fare con la scrittura.
Poi quando cominci ad essere premiato, i premi arrivano a grappolo, cioè uno
tira l’altro. Ne ho ricevuto qualcuno sul lavoro fatto nella Jugoslavia sotto
i bombardamenti. Diciamo che sono legato ad alcuni riconoscimenti, come la
cittadinanza onoraria di Sarajevo per le cose che ho fatto per la popolazione
civile negli anni di guerra, cose che non ho fatto solo io, ma anche altri
colleghi. A me piacciono i riconoscimenti che non hanno a che fare solo con un
articolo, ma soprattutto con l’impegno civile.
Parliamo di solidarietà. So che sei molto
attivo su questo fronte.
Faccio
quello che posso.
So che hai contribuito per costruire la
casa-alloggio per gli ustionati in Afghanistan.
Si!
In Afghanistan per costruire non ci vogliono moltissimi soldi. In quel caso
c’era un progetto e mezzi per costruire, inoltre venivano a darci una mano
anche gli alpini. Ho fatto uno spettacolo con Mauro Corona, lo scrittore dei
boschi, per raccogliere soldi per questo progetto. Lo spettacolo ed altri
contributi sono stati sufficienti per costruire una casa-alloggio per i parenti
dei grandi ustionati. C’è una sezione negli ospedali, dei grandi ustionati i
cui parenti venivano da posti distanti, dopo diversi giorni di cammino e
dovevano accamparsi nel cortile dell’ospedale e come sai queste degenze sono
molto lunghe. Allora questa struttura mirava a dare un posto letto ai familiari,
ma anche, con dei mini appartamenti, a consentire una specie di semi degenza al
grande ustionato una volta che avesse potuto abbandonare il letto, ma che avesse
bisogno di visite ambulatoriali frequenti. Tieni presente che per ustionati in
Afghanistan si pensa alle ustioni da attentato, però molto spesso si tratta di
incidenti domestici perché nei villaggi non raggiunti dalla modernità spesso
si cucina a terra e allora c’è il bambino che cade sulle brace, bombole che
non sono come le nostre bombole con le norme di sicurezza, ritorni di fiamma che
accendono i vestiti e in più ci sono le ragazze che si danno fuoco per
sottrarsi ad un matrimonio forzato. Anche se viene detto a bassa voce, ma
purtroppo c’è anche questo. Questa casa-alloggio è una struttura importante
e sono contento che sia stata costruita grazie agli alpini soprattutto.
Tu
hai scritto anche dei libri. Quale ti ha dato più soddisfazione?
Credo
il primo. Era sulla guerra in Bosnia e ha venduto meno degli altri, forse perché
la guerra dell’ex Jugoslavia non appassionava molto gli italiani. Si chiama
“Il giorno dopo la guerra” ed è stata per me una scrittura liberatoria.
Scritto sotto forma di racconti, ho tolto dal mio zaino delle cose di cui volevo
liberarmi. Diciamo uno sfogo su delle storie che mi avevano ossessionato in
quegli anni.
Per
te scrivere corrisponde ad una esigenza personale o una sorta di dovere?
Direi
una esigenza personale, è un piacere. Mi piace scrivere. Io non ho mai suonato
uno strumento, sono stonato, sono pessimo nel disegno… Credo che ognuno ha un
suo piccolo, un suo minimo talento e per me scrivere è il mio modo di
esprimermi, di tirare fuori quello che ho dentro.
Nella
tua trasmissione “Terra” affronti parecchi problemi di attualità. C’è un
tema che ameresti approfondire maggiormente?
Ci
sono molti temi che vorrei approfondire. Adesso con la crisi che non sembra
destinata a finire così presto e in modo così indolore, è ovvia una maggior
attenzione ai temi dell’economia dal basso, dei posti di lavoro, dei profughi,
dei pensionati, sempre temi che mi sembra non trattare mai abbastanza o meglio
vengono trattati come parte dell’agenda politica ma non come racconto di
situazioni reali. Io non sono mai stato soddisfatto a pieno del mio lavoro e
penso sempre che il prossimo anno devo fare meglio, il prossimo servizio devo
farlo meglio. Però se dovessi darmi un’agenda vorrei poter raccontare degli
stranieri facendoli sentire come se fossero una cosa vicina e vorrei illuminare
delle situazioni di cui in Italia si parla poco, penso alla montagna, ma anche
ai piccoli pescatori, all’agricoltura. Io non sono un esperto, ma mi sembra
che l’agricoltura mantenga un buon rapporto con la terra, anche con la
manualità anche se adesso molto lavoro è meccanizzato. Mi piacerebbe parlare
della cosa che lega le persone al territorio, al circolo delle stagioni, a
quello che mangiamo… Sono temi che non si toccano mai a sufficienza.
Quali
sono ora i tuoi progetti?
Adesso
è finito il programma “Terra”, che riprenderò a ottobre e fino ad allora
ho un po’ più tempo libero e mi piacerebbe scrivere un libro sulla vicenda
dei Marò e non ho altri grandi progetti.